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La partita difficile del Quirinale

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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Che, dopo la votazione di ieri pomeriggio sul rendiconto generale dello Stato, il governo non abbia più la maggioranza è un dato incontrovertibile. Sono francamente risibili le affermazioni di chi cerca di minimizzare il fatto distinguendo tra maggioranza relativa e maggioranza assoluta o di chi liquida la non partecipazione delle opposizioni al voto come un loro «gioco di prestigio» o una «strategia fraudolenta» per nascondere il fatto di essere, comunque, in minoranza: il voto di ieri pomeriggio ha un significato politico ben preciso e non è riconducibile a una questione di numeri. A questo punto, lo scenario di uno scioglimento delle Camere e di elezioni anticipate ravvicinate potrebbe sembrare molto probabile, ma non è detto che sia facile costruirlo. Anche perché al confronto elettorale gli italiani dovranno essere portati, comunque, da un governo. E il problema sarà, proprio, quello di vedere a quale governo toccherà tale incombenza. Questo governo? O un altro? E, nel caso, quale? Il pallino della partita da giocare è nelle mani del capo dello Stato, ma anche del presidente del Consiglio. Anzi, per essere precisi, il presidente della Repubblica può intervenire concretamente solo dopo l'apertura formale della crisi determinata o dalle dimissioni volontarie di Berlusconi (il famoso «passo indietro» o «avanti» o «laterale») ovvero da un voto di sfiducia del Parlamento. Il problema è, allora, quello di pilotare la crisi. Il presidente del Consiglio, che pure ha ammesso l'esistenza di un «problema di numeri», avrebbe potuto rassegnare subito le dimissioni. Ha preferito, arroccandosi su una posizione di puro formalismo istituzionale, tergiversare fino al momento in cui potrà porre la fiducia in Parlamento sul pacchetto di provvedimenti concordati con l'Europa. Questa opzione - dal momento che la legge di stabilità verrà discussa prima al Senato dove la maggioranza avrà la probabilità di reggere - consente a Berlusconi di potersi presentare al Quirinale per rassegnare le dimissioni dopo aver intascato la fiducia almeno in una delle due Camere. È una mossa che gli consentirebbe di uscire di scena indicando il successore per la gestione di un governo elettorale, ma, al tempo stesso, evitando l'umiliazione della sfiducia e potendo accusare di irresponsabilità chi non fosse stato disposto ad appoggiare il pacchetto. Qualora decidesse invece, dopo il passaggio al Senato, di passare sotto le forche caudine della Camera, Berlusconi potrebbe vedersi approvare il pacchetto e quindi dimettersi da salvatore dell'economia o vederselo bocciare ed avere un'altra arma polemica contro una opposizione antinazionale. È una strategia machiavellica. Ma servirà davvero a qualcosa? E, soprattutto, servirà al bene del Paese? E servirà a evitare le elezioni anticipate? La verità è che mai nella storia della prima e della seconda repubblica è capitata una situazione paragonabile all'attuale. Diverse legislature sono state interrotte a partire dal 1972, ma le più brevi sono state quelle che si conclusero nell'aprile del 1994, nel maggio del 1996 e nell'aprile del 2008. Nei primi due casi, a portare gli italiani alle urne furono il governo di «garanzia istituzionale» di Carlo Azeglio Ciampi e il «governo di tregua» di Lamberto Dini, entrambi generalmente (ma in maniera impropria) classificati come «governi tecnici» e rimasti in carica, più o meno, un anno. Il secondo, in particolare, fu guidato da una personalità indicata proprio da Berlusconi, cioè dal presidente del Consiglio del governo dimissionario. Ma la situazione oggi è molto diversa. E per certi versi assai più grave. Assistiamo a un incredibile e poco edificante gioco di veti incrociati che renderanno particolarmente difficile il compito del presidente della Repubblica quando, in un modo o nell'altro, la crisi di governo sarà stata formalizzata. L'ipotesi di un governo tecnico, guidato da una personalità estranea alla politica o ripescata dal passato, ovvero quella di un governo presieduto da un esponente del centrodestra e finalizzato a un allargamento della maggioranza o infine quella di un governo di larghe intese sembrano tutte trovare ostacoli insormontabili. Quel che è grave - e che è inconcepibile per la maggioranza degli italiani da tempo, ormai, avviati lungo la strada dell'antipolitica - è che questi veti sono il risultato di manovre di basso cabotaggio: essi, di fronte all'esaurimento del governo Berlusconi, esprimono non tanto la preoccupazione per la difesa dell'interesse nazionale quanto piuttosto un calcolo interessato in termini elettoralistici. Dietro i veti incrociati alle diverse ipotesi di formule governative, c'è il fatto che nessuno intende assumersi, in prima persona, la responsabilità di appoggiare un governo che dovrà comunque varare i provvedimenti economici, pesanti e impopolari, promessi all'Europa. Così si spiega, per esempio, la circostanza che Casini chiuda, contraddicendo quanto aveva sostenuto nei mesi precedenti, di fronte all'ipotesi di partecipare a un governo Alfano o Letta senza un contributo anche del Partito democratico. È una situazione da autunno della Repubblica, da ultimi giorni di Pompei, dove tutti cercano di lucrare qualcosa e salvare il salvabile. Una situazione che richiama alla mente le livide immagini degli avvoltoi volteggianti sui cadaveri in decomposizione. Una situazione che rende sempre più realistica la prospettiva delle elezioni anticipate. Ma che cosa queste elezioni potrebbero regalare al Paese non è facile intravvedere se non una ulteriore instabilità politica dal momento che le opposizioni, una volta venuto meno il collante dell'antiberlusconismo, non hanno nulla che le tenga unite e le caratterizzi come alternativa di governo. Le preoccupazioni del presidente della Repubblica espresse con forza negli ultimi tempi sono più che condivisibili e non è un caso che gli italiani guardino sempre più al Quirinale, inteso come argine morale contro i guasti della cattiva politica. Ma il capo dello Stato può muoversi solo entro certi limiti. I limiti indicati dalla Costituzione.

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