La Lega manda in crisi i centristi. Casini rischia l'autogol
Ancora più importante del pur clamoroso preannuncio della crisi dopo quei 308 voti "soltanto", otto in meno della maggioranza assoluta, con i quali è stato approvato ieri alla Camera il bilancio consuntivo dello Stato del 2010, potrebbe rivelarsi l'astuta iniziativa assunta a sorpresa dalla Lega. Il cui leader Umberto Bossi in persona, forse lasciandosi consigliare questa volta da Roberto Maroni, ha messo in campo il segretario del Pdl Angelino Alfano per la successione a Palazzo Chigi. Dove Silvio Berlusconi sembra avere i giorni praticamente contati, essendosi impegnato con il capo dello Stato a dimettersi dopo l'approvazione della legge di stabilità, ex finanziaria, ora all'esame del Senato. Nel momento in cui ha praticamente messo in campo, nello scenario della crisi di governo, la candidatura di Alfano la Lega ha evidentemente rinunciato, senza bisogno di dirlo per ora in modo esplicito, al sostanziale veto opposto sino all'altro ieri all'apertura di una trattativa con i centristi di Pier Ferdinando Casini per l'ampliamento dei confini della maggioranza di centrodestra uscita dalle urne del 2008. E successivamente ridottasi per la rottura con Gianfranco Fini e dei suoi amici. Che nel frattempo sono confluiti nel terzo polo dello stesso Casini e di Francesco Rutelli sui banchi dell'opposizione, ma in posizione obbiettivamente subalterna rispetto al leader dell'Udc, anche se Casini è un ex presidente della Camera e Fini è invece l'anomalo presidente in carica: anomalo perché, francamente, non se n'era mai visto prima uno nel cui ufficio, e dintorni, si svolgessero riunioni per preparare assalti politici al governo. Eppure al vertice di Montecitorio si sono spesso succeduti nella storia della Repubblica esponenti autorevoli di forze all'epoca schierate all'opposizione: fra gli altri, l'attuale capo dello Stato Giorgio Napolitano e la sua compagna di partito Nilde Jotti. La quale in una riunione di direzione del Pci mise in riga il segretario, che era Enrico Berlinguer, per avere osato dolersi della sua mancata collaborazione all'offensiva parlamentare scatenata dai comunisti contro il governo allora guidato da Bettino Craxi per un intervento restrittivo eseguito sulla scala mobile dei salari con un decreto legge, in funzione di contenimento dell'inflazione. La Lega, dunque, da ieri non sembra più indisponibile a trattare con Casini una ristrutturazione, chiamiamola così, del centrodestra. Ad altro non potrebbe sottrarsi di puntare, almeno in prima battuta, il segretario del partito di maggioranza se indicato al capo dello Stato e da questi incaricato di tentare la formazione di un nuovo governo. Sarebbe d'altronde difficile per il presidente della Repubblica negare al partito di maggioranza, quale ancora è il Pdl per verdetto elettorale, il diritto ad un tentativo di soluzione della crisi. Se si dovesse arrivare davvero ad un simile passaggio, i centristi di Casini si troverebbero ad un bivio cruciale, specie considerando la situazione eccezionale in cui si trova il Paese, tra l'incudine di una crisi economica e il martello speculativo dei mercati finanziari. O accettano, per senso di responsabilità nazionale, sino ad ora invocata per reclamare governi di formula analoga, di trattare per risolvere almeno il capitolo della crisi politica e cercare così anche di uscire dalla crisi economica, o rifiutano. Ma in questo secondo caso con quali argomenti? Sarebbe difficile riproporre contro Alfano la pregiudiziale sostanzialmente personale opposta sinora a Silvio Berlusconi per un rafforzamento o una riedizione del suo governo. Già discutibile e sospetta al singolare, la pratica della pregiudiziale personale diventa odiosa al plurale, tanto più ricordando che la ripresa di un rapporto di collaborazione con l'Udc fu il primo auspicio espresso da Alfano insediandosi nella scorsa estate alla guida del suo partito. Se quella di Casini fosse invece una pregiudiziale politica nei riguardi del Pdl, magari nascosta dietro la opportunità o addirittura necessità di coinvolgere nella formazione di un nuovo governo o di una nuova maggioranza anche il primo partito di opposizione, prevedibilmente contrario ad una successione di Alfano al Cavaliere, Casini avrebbe più di un problema a spiegarlo e a farlo accettare ai suoi: sia a quelli da più tempo legati a lui e al suo partito sia - e ancor più - a quelli che ha appena reclutato e sta forse ancora reclutando in queste ore dal Pdl. Si tratta di parlamentari che hanno abbandonato Berlusconi, o sono tentati di farlo, invocando proprio un centrodestra comprensivo dell'Udc, in nome anche della comune partecipazione al Partito Popolare Europeo. Costoro si troverebbero spiazzati, delusi, diciamo pure sconcertati da uno spostamento a sinistra di Casini, quale sarebbe una sua decisione di condizionare davvero la soluzione della crisi al coinvolgimento del Pd di Pier Luigi Bersani. Che peraltro sulle scelte concrete di un nuovo governo in campo economico, quello più stringente e drammatico, non è certamente in sintonia con l'Udc. Casini, per esempio, ha notoriamente condiviso la famosa lettera della Banca Centrale Europea al governo italiano sulle misure urgenti per ridurre il debito pubblico, assestare veramente i conti e garantire la ripresa. Il Pd di Bersani invece dissente, ed anche profondamente, in coerenza d'altronde con l'alleanza elettorale che coltiva, come dimostra la ormai famosa "fotografia di Vasto", con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. I quali sono accomunati proprio nella contestazione di quella lettera per gli interventi prospettati, fra l'altro, sul troppo costoso fenomeno delle pensioni anticipate di anzianità e sulla disciplina del mercato del lavoro, comprensiva della materia dei licenziamenti, Di Pietro vi ha visto addirittura le insegne di una "macelleria sociale", scavalcando a sinistra, come solo lui sa fare, sia Vendola sia Bersani. Il quale al massimo, quando viene incalzato per spiegare che cosa in particolare il suo partito sia disposto a fare o a sostenere per mettere il Paese al passo con l'Europa, risponde che il programma del Pd per la ricostruzione" arriverà "fra qualche settimana". Lo ha ripetuto non più tardi di sabato scorso nel comizio romano in Piazza San Giovanni. Fare sostanzialmente da spalla, volente o nolente, a posizioni e a linee di questo tipo, tra il generico e il massimalista, potrebbe costare molto caro a Casini e alla sua parte politica anche nella prospettiva per niente improbabile, anzi assai forte, di una crisi di governo destinata a sfociare, per le altissime tensioni e strumentalizzazioni nelle quali è maturata, in uno scioglimento delle Camere e nelle conseguenti elezioni anticipate. Che sarebbero le seconde in meno di quattro anni.