Le buone ragioni di Sacconi sull’allarme terrorismo

Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi fa non bene ma benissimo, a dispetto degli improperi delle opposizioni, a preoccuparsi di quello che stanno conducendo «nuclei organizzati», come lui li ha definiti, impegnati «clandestinamente a trasformare il disagio in rivolta». Se ne sono visti i segni non più tardi di una quindicina di giorni fa a Roma, dove poco, assai poco è mancato che ci scappasse il morto, per ripetere un’espressione adoperata qualche giorno prima da Antonio Di Pietro nella curiosa speranza di poterne addebitare la colpa al solito Cavaliere. E alla sua ostinata resistenza agli sfratti da Palazzo Chigi intimati dagli avversari. Il 15 ottobre sulla manifestazione pacifica dei cosiddetti indignati prevalse nella Capitale quella paraterroristica di chi era deciso a mettere tutto a ferro e fuoco. Assaltando e incendiando, fra l’altro, un mezzo blindato dov’era un tutore dell’ordine, di nient’altro colpevole che del suo servizio. E scampato alla morte per un soffio. Questo episodio, metaforicamente ancora fresco di stampa, è già stato rimosso dalle tante anime belle insorte in 48 ore contro il pericolo, denunciato da Sacconi, che faccia capolino la violenza tra le pieghe della campagna in corso contro il progetto del governo di intervenire sulla disciplina dei licenziamenti. Che va vista nel contesto di una riforma del mercato del lavoro chiesta dall’Ue per garantire la competitività del sistema produttivo, e con essa la ripresa economica di cui tanti parlano a sinistra più a vanvera che altro, pensando che basti e avanzi a questo scopo una bella crisi di governo. Che D’Alema, Franceschini e dintorni valutano quanto due, tre e forse anche più manovre finanziarie. Oltre ai disordini a Roma del 15 ottobre è stato rimosso dalla mente dei critici di Sacconi anche il sangue di giuslavoristi come Massimo D’Antona e Marco Biagi. Che furono uccisi non nei lontani anni di piombo Settanta e Ottanta, quelli del terrorismo più diffuso e organizzato, ma nel 1999 e nel 2002. E non da ladruncoli sorpresi a rubare la bicicletta o la macchina, ma da terroristi in carne e ossa, azionati da chi non perdonava né all’uno né all’altro di volere riformare il cosiddetto mercato del lavoro tra le proteste, anche allora, delle solite parti sindacali e politiche inchiodate al passato, o ad un presente di cui solo a parole lamentano il carattere precario. Ma con il sangue dei poveri D’Antona e Biagi, e con il ferro e il fuoco del 15 ottobre a Roma, sono state disinvoltamente, e irresponsabilmente, rimosse anche le notizie non certo lontane dell’attenzione, chiamiamola così, riservata allo stesso Sacconi da quel che è rimasto o tenta di rivivere del terrorismo in un Paese come il nostro. Che è l’unico al mondo dove si corrono rischi mortali ad occuparsi, sul fronte politico, sindacale e imprenditoriale, di riforme della disciplina del lavoro. Su questa strana unicità nessuno dei critici di Sacconi ha ritenuto di dover spendere una riflessione. Che non dovrebbe costare molto, neppure in termini di sforzo fisico. Ma forse si teme che basti ed avanzi per finire catalogati dai malintenzionati fra i possibili obiettivi. A questo sforzo di riflessione non stupisce, ormai, che abbia voluto sottrarsi pure il presidente della Camera Gianfranco Fini. Il quale ha appena tirato le orecchie pure lui al ministro del Lavoro dicendo, nell’ennesima intervista contro il governo, che «se non ha qualche elemento più concreto» sui rischi di violenza nel falò politico e ideologico accesso su un possibile intervento legislativo sul mercato del lavoro, «le sue parole sono gravi». Chissà se la nota diffusa ieri da Sacconi sull’attività «clandestina» dei «nuclei organizzati» per accendere le piazze d’Italia alla maniera del 15 ottobre a Roma ha risvegliato qualcosa nella memoria del presidente della Camera. Ne dubito, francamente, tanto lo vedo politicamente ossessionato dal desiderio di veder cadere Berlusconi, considerandolo la causa anche della sua anomalia di presidente d’assemblea parlamentare in servizio permanente ed effettivo contro il governo. «Non era mai accaduto ad alcuno - si è lamentato Fini - di essere espulso dal partito che aveva contribuito a fondare. E non era mai accaduto che ci fosse un contrasto quotidiano tra il presidente del Consiglio e altri organismi costituzionali, a partire dalla magistratura sfiorando financo il Quirinale. Una situazione anomala a dir poco, e non credo - ha concluso Fini - che il ruolo politico che fuori dall’aula ha il presidente della Camera sia la più grave delle anomalie in questo momento». Non risulta che Fini abbia condotto i suoi partiti di origine - il Movimento Sociale prima e Alleanza Nazionale poi - con polso, diciamo così, meno fermo di Berlusconi nel Pdl. Né risulta che un altro presidente della Camera sia stato insofferente quanto lui contro il governo in carica. Né risulta ch’egli si muova da oppositore solo "fuori dall’aula", visto come ha gestito, per esempio, la vicenda del bilancio consuntivo dello Stato del 2010. Di cui egli proclamò tanto intempestivamente la bocciatura il 12 ottobre, dopo un incidente sul primo articolo, da doverne poi ammettere il ritorno in aula nella prossima settimana, dopo un acrobatico passaggio al Senato autorizzato dal Quirinale, e ben prima dei 6 mesi prescritti formalmente dal regolamento di Montecitorio per l’esame di una legge, appunto, bocciata. A piangere non è tanto il regolamento quanto il buon senso rimosso meno di un mese fa.