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"Il governo si è calato le braghe"

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Il ministro della semplificazione Roberto Calderoli (s) e il ministro delle riforme Umberto Bossi

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La Lega scalpita. Lo fa a modo proprio rispolverando parole dure, non proprio educate, che rendono perfettamente l'idea di quanto l'aria all'interno della maggioranza sia ormai diventata pesante. Da una parte Bossi che è tornato a mostrare il dito medio, a fare le pernacchie e a minacciare rivoluzioni, dall'altra il suo fedele ministro della Semplificazione Roberto Calderoli che, senza mezzi termini, ha voluto esprimere il «totale disappunto» per la mancata approvazione delle misure anticrisi per mezzo di un decreto: «Decreto legge alla memoria - è stato il suo sfogo - Quando si calano le braghe bisogna stare molto attenti a coprirsi le spalle perché svolazzano i temuti uccelli paduli...». In altre parole: il governo ha ceduto a interferenze esterne e ora rischia di pagarne le conseguenze. Un dissenso che il ministro Calderoli aveva già manifestato durante il Consiglio dei ministri sostenendo la sua contrarietà a stoppare un decreto legge che avrebbe consentito di dare una risposta immediata alle richieste dell'Europa. Eppure, poco dopo, il «totale disappunto» è diventato un vero e proprio litigio. E per la prima volta a fare le spese dell'ira di un leghista è stato il ministro Tremonti accusato da Calderoli di dire sempre di «no» e ritenuto da molti colleghi ministri il principale oppositore allo strumento del decreto. E intanto, se Calderoli dimostrava il suo disappunto a Palazzo Chigi, poco distante, a Montecitorio, era il leader della Lega Umberto Bossi a farsi minaccioso. Era bastato che alcuni giornalisti gli chiedessero conferme sulla possibilità che il governo volesse mettere mano alle pensioni per vedere il leader della Lega Nord agitarsi. E così, dopo aver mostrato il dito medio ai cronisti, si è sfogato: «Facciamo scoppiare la rivoluzione sicuro se togliamo le pensioni ai lavoratori che hanno sempre lavorato per dare soldi a Roma». Nessuna retromarcia quindi. Nessun ripensamento: le pensioni non si toccano a costo che su quell'argomento si possa rischiare di far cadere il governo. E proprio a dimostrazione di come, ormai, il sodalizio tra Bossi e Berlusconi sia solamente sostenuto dalla necessità di salvare un esecutivo che fronteggi la crisi, lo si percepisce dalle ulteriori risposte che il Senatùr riserva ai giornalisti. «No comment» per esempio è il primo timido tentativo di Bossi per placare la curiosità di chi gli chiedeva se ritenesse necessario un passo indietro di Berlusconi. Ma, di fronte all'insistenza il Senatùr si lascia andare: «Berlusconi non lo fa. Inutile chiedere, tanto quello non lo fa».   L'ipotesi quindi che sia il Cav a fare un passo indietro viene vista come «improbabile» dato che equivarrebbe, per il premier, ad assumersi le responsabilità di una crisi che affonda le sue radici nel crollo del sistema. Poi il pensiero va all'appello lanciato l'altro giorno da Napolitano. Parole dure che Bossi approva con un secco «va bene» alle quali però aggiunge: «Bisogna vedere quello che significano». Ma è alla domanda se anche la Lega andrà al Quirinale per un colloquio con il presidente della Repubblica che Bossi si lascia andare: «No, non siamo stati invitati perché sa che siamo troppo saggi». Dichiarazione poco dopo smentita da un'altra dichiarazione che, invece, confermava un vertice al Colle tra Napolitano e Lega per questa mattina. Nella Lega, intanto, si vive con insofferenza la «continua richiesta» dell'opposizione di un governo tecnico. I Lùmbard non appoggiano l'idea di un esecutivo di salute pubblica perché significherebbe perdere la guida del Paese mantenendo però le responsabilità davanti agli elettori. Insomma lasciar fare le riforme a terzi ma pagandone il conto al momento del voto. E infatti ieri è stato Bossi a bocciare l'ipotesi di un governo tecnico guidato da Mario Monti rispondendo alla domanda con una pernacchia. Intanto sono ancora le divisioni all'interno del Carroccio tra chi vorrebbe salvare questo governo e chi vorrebbe le elezioni a tenere banco. Ma tra i Lùmbard c'è chi si espone ritenendo inimmaginabile una divisione: chi dovesse andar via per appoggiare un altro esecutivo sarebbe indicato come «traditore» tra i leghisti e avrebbe vita difficile. Una divisione che segnerebbe la fine del progetto leghista.

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