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Rete anti contagio per Italia e Spagna Sulla crisi Ue e Fmi studiano il piano B

Il premier spagnolo Zapatero e il presidente del Consiglio Berlusconi (D)

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Solo qualche ottimista alla fine del vertice tra i capi di stato e di governo di Bruxelles di mercoledì scorso aveva creduto che l'accordo sul fondo Salva Stati fosse la panacea di tutti i mali del sistema finanziario europeo. L'intesa era solo politica e la mancanza di contenuti tecnici, quelli necessari e non derogabili quando si parla di soldi non sono stati nemmeno abbozzati. Così l'euforia sui mercati è durata solo una giornata. Venerdì scorso l'asta dei Btp decennali italiani ha registrato rendimenti record, sopra il 6%. Il segnale più evidente che gli investitori continuano a non fidarsi dei bond italiani. Una pecca subito presa al balzo dal Financial Times che ieri ha scritto a caratteri cubitali «L'Italia rovina l'atmosfera dopo l'accordo Ue». Una considerazione ingenua da parte della bibbia degli operatori finanziari anglosassoni. Già perché l'asta italiana è stata influenzata proprio dalla mancanza di chiarezza dell'accordo sbandierato da Merkel e Sarkozy come una grande prova politica dell'Europa. Che non sia tutto così chiaro nel fondo Efsf è la sensazione che si respira anche ad Atene. Domani la Grecia inizierà i colloqui con gli investitori per l'applicazione dell'intesa dei leader Ue sul taglio del 50% dei titoli ellenici. Lo ha annunciato il viceministro ellenico alle Finanze, Sachinidis, aggiungendo che lo scambio includerà sia cash che nuovi titoli. «Non abbiamo definito i termini definitivi dell'accordo del 26 ottobre, ma lunedì cominciamo i colloqui e inviteremo tutti i detentori di titoli greci a partecipare» ha detto, spiegando che «molti aspetti tecnici sono ancora da chiarire». Fin qui le perplessità dei diretti interessati. Non mancano anche quelle più approfondite sull'entità del fondo Salva Stati. Dei 440 miliardi iniziali, ancora non tutti versati, ne sarebbero rimasti dentro circa 250 dopo quelli elargiti alla Grecia. Per arrivare ai mille miliardi di euro stabiliti come potenza di fuoco per arginare la crisi dell'euro i grandi d'Europa hanno autorizzato un meccanismo di leva. Ovvero un delicato gioco di opzioni e artifici che consente a fronte di una somma di averne a disposizione una più alta pur non possedendola integralmente. Insomma per curare la malattia introdotta nel sistema dalla finanza derivata si stanno utilizzando gli stessi sistemi alla base della crisi. La realtà insomma è che la sicurezza di Francia e Germania ha già cominciato a vacillare. Sarà anche per questo che ieri si sono diffuse indiscrezioni secondo le quali fra Fmi, Unione europea e banche centrali «sono in corso contatti per approntare un piano di contingenza» in caso di eventuale contagio di Italia e Spagna nella crisi. La fonte internazionale avrebbe spiegato che, nel caso del Fmi, una «rete di sicurezza» per i due Paesi potrebbe richiedere un aumento di capitale. Del «contingency plan», come lo chiama la fonte, si starebbe discutendo fra Washington, Bruxelles e Francoforte, ma anche con le controparti asiatiche, in quelli che al momento sono soltanto «contatti informali». L'obiettivo sarebbe quelli di prevenire a ogni costo l'onda d'urto globale che potrebbe derivare da un contagio ad economie «pesanti» dell'area euro. Le istituzioni finanziarie internazionali starebbero insomma ragionando su uno scenario pessimistico in via preventiva, «per approntare misure d'emergenza». Un'accelerazione che ha fatto tremare le vene nei polsi a tutti quelli che domani mattina si troveranno nelle sale cambi. E che per questo sarebbe stata smentita dal portavoce di turno dell'Ue: «Non esiste alcun piano B per costrastare un eventuale contagio della crisi del debito sovrano all'Italia e alla Spagna». Un atto dovuto per non caricare il mercato di nuovi elementi ansiogeni. Ma che non cancella la necessità di lavorare ancora per mettere in sicurezza le banche e l'economia Ue.   Certo la discesa in campo del Fmi in coincidenza con l'arrivo di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea non sembra casuale. Il programma del nuovo presidente Bce non è ancora palese ma è indubbio che la sua preparazione tecnica e il suo background lo mettano più vicino all'azione del Fmi piuttosto che a quella della Fed. La ricetta di una politica monetaria accomodante inaugurata dalla Banca Centrale americana non sembra aver dato buoni frutti quanto a soluzione della crisi. Serve un cambio di passo. Ovvero politiche per la crescita piuttosto che iniezioni di liquidità nel sistema. La Bce di Draghi potrebbe lasciare al suo destino la Fed e creare un asse con il Fmi. La cui missione principale è proprio quella di sviluppare le economie piuttosto che di usare i suoi fondi per sanare i bilanci pubblici. Forse l'ora della svolta è arrivata.

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