Il debito ci perseguita dalla nascita dell'Italia
Ogni volta che Cavour lascia Torino e fa perdere le sue tracce Vittorio Emanuele II va nel panico. «Ma dove sarà finito questa volta il mercante?», sbraita il sovrano mentre, per togliersi l'ansia di dosso, fa strage di cervi e daini che poi è la sua occupazione preferita. Quando Cavour ricompare è il solito duetto. «Ma allora li ha trovati questi soldi?» «Dovrebbe sapere, maestà, che non sono tipo da tornare a mani vuote» «Sì, ma quanto ci costeranno di interessi?» «Sempre meno delle cartucce che sua maestà consuma con le sue doppiette» è l'irriverente risposta che se al posto di Cavour fosse stata pronunciata da qualcun altro, sarebbe costata al malcapitato l'impiccagione. Ma che senso ha, parlando della nostra storia, raccontare aneddoti del genere? Ce l'ha eccome perché spiega quali e quanti problemi il Regno di Sardegna abbia avuto mentre tentava di cacciare gli austriaci dall'italica penisola: casseforti orribilmente vuote perché le uscite superavano di gran lunga le entrate e sfinimento di cambiali da onorare. Anche dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala il debito pubblico resterà il convitato di pietra di molti dei governi che terranno le redini dello Stato dall'Unità d'Italia in poi. Non è uno scandalo che uno Stato possa avere debiti. Anche in altri Stati è accaduto e continua ad accadere perché è normale che chi deve realizzare grandi riforme e offrire al cittadino sempre migliori servizi spenda più di quanto incassi con le tasse. E poi non è forse investendo in opere strutturali e in nuovi posti di lavoro che si produce, in un Paese, maggiore ricchezza? Certo,solo che da noi si è un po' esagerato perché, in 150 anni di storia, il rapporto tra debito e prodotto interno lordo è stato sforato del 100% in 34 anni, del 90% in 15 e del 60% in un'altra quarantina. Con il risultato che, dovendo pagare anche montagne di interessi sui denari avuti in prestito, lo Stato non ha mai avuto risorse sufficienti per fare tutto quel che avrebbe dovuto o aveva in mente di fare. A sua scusante l'Italia ha il fatto di non possedere, a differenza della Germania e di altri Paesi, né miniere di carbone né di altro. Per non parlare del petrolio che, a caro prezzo, siamo costretti ad acquistare da Paesi che, sotto questo profilo, sono assai più fortunati del nostro. Ma anche questo, al punto in cui si trova l'economia mondiale,è un alibi che non regge più. In quanto a debito pubblico i periodi peggiori per l'Italia, oltre a quello del già citato Risorgimento, sono stati, per una serie di concause che qui sarebbe lungo elencare, le due guerre mondiali, la crisi petrolifera del 1974, il 1992 (picco debito-pil del 121%) e quella specie di tsunami che è stata,dopo la caduta del muro di Berlino, la globalizzazione. Quando poi, con l'arrivo dell'euro, non abbiamo più avuto la possibilità di taroccare il debito con l'inflazione sono cominciati altri guai. Il paradosso è che chi va a scuola o sfoglia libri sa tutto di Giuseppe Mazzini e della Resistenza, ma poco o nulla di un'Italia che è stata quasi sempre costretta a crescere sotto il salice piangente del debito pubblico. Ed è un vero peccato perché sarebbe invece assai istruttivo (e formativo) che i cittadini conoscessero questi non trascurabili dettagli della nostra storia. È vero che, nonostante questo debordante debito pubblico, siamo sempre riusciti, in qualche modo, a sfangarla, ma che fatica, che tribolazioni, quante notti insonni! Tanto che per capire cosa accade ai governi costretti a vivere sotto i tetti alluvionati dal debito basta ricordare quel che successe nella guerra di Crimea, l'avventura che portò l'Italia al tavolo dei grandi grazie ad un colpo di genio del solito Cavour. È il 1855 e per schierarsi al fianco di francesi, inglesi e turchi contro le mire espansionistiche della Russia dello zar Nicola I, i Savoia devono mettere in campo un esercito di ben 15 mila uomini con cannoni ultimo modello, cariaggi, quadrupedi e uniformi che ci evitino una brutta figura. E questo crea uno sfracello di problemi perché, in cassa a Torino, non c'è un soldo. Ecco allora che Cavour corre a Londra e non solo strappa un prestito di un milione di sterline (80 milioni di euro) che poi, strada facendo, diventeranno più di tre ma riesce ad addossare agli inglesi (non è che essi siano di buon cuore, ma hanno bisogno di noi per liberare il Mediterraneo dagli austriaci) anche tutte le spese di trasporto perché trasferire un intero esercito, muli compresi, su navi a vapore fino al Mar Nero cioè a 3000 km di distanza costa un occhio della testa. E magari fosse finita qui. Scattata l'operazione ecco che il generale Alfonso La Marmora manda da Costantinopoli a Cavour disperati sos: «Qui i nostri soldati sono costretti a dormire sulla nuda terra perché gli alleati hanno già requisito tutti i capannoni disponibili e noi non abbiamo né soldi né legname per costruirne altri». L'addetto alla sussistenza, maggiore Vittorio Morelli dei Cavalleggeri di Saluzzo-Monferrato ha intanto una crisi di nervi perché «maestà, mancano gallette, carne in scatola, panni pesanti e medicinali e siamo invasi dai pidocchi». Così il trafelato Cavour (tirerà le cuoia prima del tempo anche a causa di questi stress) è costretto a cercare altro denaro. Mentre stive piene di gallette arrivano in Turchia grazie ad una sottoscrizione popolare ( fatta però in modo discreto per non essere messi in berlina dagli alleati) tocca ad Hambro (banche olandesi) scucire altro «argent» per attrezzare almeno quattro ospedali da campo. Ma, in fondo, queste sono bazzecole in confronto a quel che dal 1961 l'appena costituito Regno d'Italia dovrà penare. Eh sì, perché oltre a dover ripianare i costi della guerra del 1859 (263 milioni di lire) e a risarcire Austria (180 milioni) e Francia (80 milioni) servono contanti sia per pagare gli stipendi ai funzionari piemontesi in missione sulla penisola che per rimettere in sesto le finanze del regno borbonico delle due Sicilie e poi dei ducati e gran ducati che, per plebiscito, sono ora diventati sudditi di Vittorio Emanuele II. Ed è il rovello del conte Bastogi, primo ministro delle finanze del Regno d'Italia, quantificare il debito pubblico che si è accumulato: ben 2374 milioni di lire che, nel 1870, lieviteranno a 3950. Poi con le imprese coloniali dei primi del '900 e con l'accorta gestione di Giolitti si ricomincia a respirare ma dura poco perché ci pensa la prima guerra mondiale a spazzare via il sogno di bilanci ripianati. Per non parlare della crisi del famoso '29 che si supera solo perché il regime fascista aggiusta i conti, da una parte, nascondendo sotto il tappeto tutto quel che non fa comodo che si sappia e, dall'altra, riscuotendo più tasse perché non c'è capo fabbricato che non riceva l'ordine di denunciare l'inquilino che gira in «balilla» o ha comprato la pelliccia alla moglie. Così si arriva agli anni '50, questi sì da vero boom economico perché ora l'economia tira che è un piacere e il Paese comincia ad essere invaso da lavatrici e piccole automobili che Vittorio Valletta, spalleggiato dagli americani, vende a prezzi abbordabili. Anche la ricchezza delle famiglie, con tutto il lavoro che serve per la ricostruzione, sta crescendo a vista d'occhio e poi, per molti italiani, viaggiare finalmente su quattro ruote è come sognare. Intanto il ministro delle finanze, Ezio Vanoni viene incaricato di realizzare una riforma fiscale che trasformi in imposte dirette sul reddito e sul capitale gran parte di quelle che fino a quel momento colpivano soltanto i consumi. E perché questo improvviso giro di boa? Perché così lo Stato può contare su entrate più sicure che consentano un più consistente cash flow per fare autostrade, scuole e altro. Questo Vanoni è un tipo particolare: non solo, a differenza di molti suoi colleghi di governo, ha un gran rispetto per il denaro soprattutto quando appartiene allo Stato (tanto che, per farlo risparmiare, va in ufficio in tram) ma, avendo preso molto sul serio il suo incarico, scartabella libri, documenti e memorie per capire quale veramente sia il rapporto che gli italiani hanno, nel tempo, maturato con il fisco. E ci vuol poco per capire che questo rapporto, in molte regioni d'Italia, o è mediocre o è addirittura pessimo. Tanto che un giorno, confidandosi con Giuseppe Pella, sbotta: «Io faccio questa riforma perché mi pare che ad essa non vi siano alternative ma è bene che si sappia fin d'ora che non sarà facile eliminare quel tasso di sfiducia che il contribuente pare nutrire nei confronti dello Stato che è poi il vero difetto strutturale del sistema tributario italiano». E quando qualche tempo dopo ha modo di valutare quali siano stati i reali effetti prodotti dalla riforma, annota sconsolato nei suoi taccuini: «Non so di chi possa essere la colpa ma purtroppo abbiamo, in questo Paese, un sistema fiscale che funziona come la Giostra del Saracino, con un contribuente che maschera e occulta come e quanto può il proprio volto e uno Stato che tenta di disarcionarlo ma non sempre ci riesce». Così quando con le crisi petrolifere dei primi anni '70 pare sfumare il sogno di un inarrestabile boom economico, trovare la quadra ai conti diventa una specie di incubo. Non puoi dire di no alle pressioni che arrivano da ogni parte (ora ci sono di mezzo anche i socialisti ormai entrati a far parte organica della maggioranza) perché si amplino gli apparati pubblici e si strutturi, come è giusto che sia, un servizio sanitario adeguato ad un Paese che ormai è tra i più industrializzati del mondo, ma dove trovare i soldi per riempire questo enorme pentolone di spese? Tutto sarebbe più facile se, alla voce entrate, tutto funzionasse come in Germania, ma non è affatto così perché ogni anno mancano all'appello, calcolando a spanne, centinaia di miliardi di tasse che sarebbero dovute ma che non sono state versate. Così, verso la fine degli anni '80, c'è poco da stare allegri perché, mentre la spesa pubblica cresce a vista d'occhio mangiandosi ormai quasi la metà della ricchezza del Paese, il gettito fiscale, nonostante raffiche di condoni, continua a battere la fiacca. Eh sì che ci vorrebbe, per raddrizzare la situazione, un bel colpo di spugna su quel tanto di spesa pubblica che tutti – ma solo a parole – considerano improduttiva, anzi deleteria per un Paese che ha bisogno più di scuole che di addobbi, scrivanie, auto blu e enti di Stato con pachidermici consigli di amministrazione. Come occorrerebbe rifare anche un sistema tributario che fa pagare troppo ai cittadini onesti e troppo poco agli altri. Ma chi se la sente di buttare tutto all'aria e di ricominciare daccapo? Il problema comincia ad essere tema di discussione nei palazzi che contano, ma dopo ore di discussione, non si cava mai un ragno dal buco. Adolfo Sarti, un intelligente e rampante democristiano che ha sempre coltivato anche buone letture (per anni lavorerà in tandem con Francesco Cossiga) una volta, confidandosi con l'autore di questo articolo, la butta giù dura. «Forse il primo errore – dice – è stato quello dello sbarco dei mille non a Marsala ma a Roma perché che bisogno c'era di avere un così grande numero di parlamentari quando le grandi democrazie stavano funzionando benissimo con meno della metà di questi scanni e di questi apparati?». Insomma la tesi di Sarti, purtroppo scomparso prematuramente, era che, avendo gonfiato oltre misura numero di medagliette e costi di mantenimento di questa pur indispensabile Istituzione, si è creato un modello di struttura che tutte le altre istituzioni pubbliche, compresi gli enti creati solo per coltivare margherite, si sono poi sentite in dovere di copiare con il risultato che queste voci di spesa insieme con altre sono aumentate in misura esponenziale contribuendo a formare un debito pubblico che oggi non sappiamo più come toglierci di dosso. Ora, per salvare l'euro e tutto il resto, siamo costretti a riprovarci. Ce la faremo?