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Da 17 anni la riforma previdenziale agita la Lega e fa tremare il Cav

Il leader della Lega Umberto Bossi

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C'è della sinistra coerenza, purtroppo, nella posizione assunta dalla Lega sulle pensioni, anche a costo forse di provocare la crisi tanto invocata dalle opposizioni. Già il primo dei quattro governi presieduti da Silvio Berlusconi cadde per mano leghista il 22 dicembre 1994, solo sette mesi dopo la sua formazione, per i contrasti esplosi con Umberto Bossi nell'autunno di quell'anno proprio sulla riforma delle pensioni. Che il già allora presidente del Consiglio voleva fermissimamente, senza lasciarselo chiedere o imporre dall'Europa, in un momento peraltro in cui la moneta unica era ancora un progetto. Ma la Lega la osteggiava al pari dei sindacati e della sinistra. Della quale non a caso Massimo D'Alema, allora segretario del Pds-ex Pci, avrebbe poi riconosciuto «una costola» proprio nella Lega. Seguì a quella esplosione di contrasti sul tema delle pensioni, non la precedette, l'avviso di garanzia, o mandato a comparire, per presunta corruzione notificato al Cavaliere a mezzo stampa mentre presiedeva a Napoli un appuntamento internazionale sulla lotta alla criminalità organizzata. Quella iniziativa giudiziaria, la prima di una serie tanto lunga quanto inquietante, riuscì ad accelerare la crisi di governo grazie anche all'aiuto fornito alla Lega dietro le quinte dall'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Ma non la provocò. A provocarla - ripeto - fu la contestazione leghista della riforma delle pensioni. Che il governo successivo, presieduto dall'allora ministro uscente del Tesoro Lamberto Dini, avrebbe varato in forma talmente edulcorata che oggi siamo ancora alle prese con una questione pensionistica. Oggi al Quirinale non c'è più, per fortuna, il presidente Scalfaro, tanto prevenuto verso Berlusconi, anche dopo la netta vittoria elettorale del 27 e 28 marzo 1994, da accompagnarne la nomina a presidente del Consiglio con una lettera veramente inusuale, diciamo pure stravagante, nella quale gli indicava pali e paletti della politica estera e interna del governo. Lo stesso leader della Lega avrebbe poi raccontato impietosamente della cordiale accoglienza che il capo dello Stato gli riservava al Quirinale mentre maturava la crisi. Al posto di Scalfaro c'è ora sul colle più alto di Roma Giorgio Napolitano, un presidente «inappuntabile», come lo ha recentemente definito alla Camera il Cavaliere chiudendo finalmente una spiacevole storia di equivoci e di incomprensioni da lui stesso alimentati con polemiche gratuite: per esempio in occasione della bocciatura del cosiddetto lodo Alfano, sul cosiddetto scudo giudiziario del presidente del Consiglio, da parte della Corte Costituzionale. Di quella bocciatura era stato in qualche modo vittima anche il Capo dello Stato, che aveva promulgato la legge, tra le proteste delle opposizioni, con declamata e ragionata convinzione. Per stile e per sue radicate convinzioni europeistiche, ribadite anche in recenti esternazioni, Napolitano non ha potuto certamente incoraggiare la Lega a mettersi di traverso sulla strada di un intervento serio e risolutivo sullo scandalo che è ormai diventato il costosissimo fenomeno delle pensioni di anzianità. La Lega ci ha pensato e ci è arrivata da sola, in una spontanea evoluzione all'incontrario. Essa è tornata alle origini della sua esperienza di governo, cioè all'autunno di 17 anni fa, sotterrando anche il ripensamento maturato nel penultimo governo di Berlusconi dal suo allora ministro del Lavoro Roberto Maroni. Il quale aveva voluto e introdotto per legge quello che fu chiamato «scalone» per frenare la corsa alle pensioni anticipate di anzianità. E che la sinistra impose al successivo governo di Romano Prodi di ridurre a scalini dei quali oggi si pentono, riconoscendone gli altissimi costi per la collettività, anche alcuni esponenti del maggiore partito di opposizione: per esempio, il senatore Enrico Morando e sotto certi aspetti anche il vice segretario Enrico Letta. Ma il segretario del Pd Pier Luigi Bersani preferisce parlare d'altro, o parlarne nei soliti termini generici e contraddittori, come è tornato a fare ieri riproponendo come soluzione alla crisi economica e finanziaria l'apertura anche di una crisi politica. Alla quale purtroppo la Lega rischia con le sue posizioni di dare un contributo, in una paradossale rincorsa dei sostenitori di quel governo di transizione, di emergenza, di solidarietà nazionale e di altre fantasiose denominazioni che a parole essa contesta. È difficile dare un senso e una ragione, se veramente ne hanno, a questa marcia della Lega a ritroso, a questo suo tornare indietro, anziché andare avanti, nonostante le fatiche fatte, e procurate alla maggioranza, per portare avanti il suo progetto federalista, con l'omonima riforma e i decreti delegati, peraltro in una situazione economica che rischia di complicarne l'applicazione e farne saltare i conti. È difficile capire, con quell'insultante dito medio levato contro domande e interlocutori sgraditi, anche se alleati, come Bossi possa pensare di proteggere o addirittura salvare l'identità e il ruolo della Lega accodandosi alle frange del massimalismo di sinistra nella difesa del diritto di andare ancora in pensione a meno di sessant'anni, pregiudicando quelle dei figli e dei nipoti, magari «indignati». I partiti quando sono in crisi - e la Lega lo è, tra annunci e minacce di espulsioni, e congressi più o meno locali condotti con stile a dir poco stalinista - riescono evidentemente a trovare la loro unità solo su scelte suicide.

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