di Raffaele Iannuzzi «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli».
Beatoè l'uomo che si lascia plasmare da Dio e affronta le difficoltà della vita con una forza non semplicemente umana o morale, ma soprannaturale. È il santo, l'uomo vero, l'unico in grado di apprezzare e saggiare la solidità della forza di Dio, l'unico in grado, per dirla con Balthasar, di «sopportare lo sguardo di Dio». Karol Wojtyla, beato tra gli uomini e nella Chiesa, dunque di fronte a Dio, ha come scaraventato tutto se stesso nell'agone drammatico della storia, infilando, uno dietro l'altro, una serie di affondo di insperata originalità. Sperare contro ogni speranza è l'originalità mistica dell'uomo di Dio, ma questa cifra della beatitudine traspare soprattutto nell'azione guidata dalla Grazia. Ecco perché la prima enciclica di Giovanni Paolo II è dedicata al Redentore dell'uomo, Gesù Cristo: la forma dell'azione del cristiano, attratto dalla storia, perfino dei più lontani e dei nemici, si misura con quell'inedito assoluto che è il Dio Crocifisso. Crocifisso e Redentore, secondo la teologia della storia di Sant'Agostino. Perché Wojtyla, l'uomo venuto da lontano, ha trascinato con sé il baricentro storico stravolgendolo rispetto all'asse del male e del limite umano? La domanda si insinua prepotentemente nelle pieghe del suo essere uomo mistico nell'azione e, anzi, attore e protagonista della storia, nel senso etimologico: sulla scena del dramma degli uomini. C'è un filo rosso - come il sangue dei martiri, che creano letteralmente la forma vivente della Chiesa, secondo Tertulliano - che lega le Beatitudini alla politica in/di Dio. Wojtyla diventa Papa cinque mesi dopo l'efferato assassinio di Aldo Moro, dopo la "parentesi" provvidenziale e dunque non marginale di Giovanni Paolo I, e dopo le parole angosciate di Paolo VI «agli uomini delle Brigate rosse». È l'epicentro della crisi del '900, che ferisce l'Italia, laboratorio perverso e originale, nel bene come nel male, di questo secolo del male e della fede: il 1978 è bagnato di sangue e di speranza. La storia entra nelle pieghe sacre della Chiesa come un cuneo d'acciaio e spinge la fede a trovare un'intelligenza «della» storia, non già come ripetizione stanca del Concilio Vaticano II, con il carico di apologia indiretta del progressismo come veicolo del dialogo nuovo tra cristianità e modernità; ci voleva infatti un'altra invenzione spirituale e perfino laica, un modus essendi quasi a guisa di «pensiero laterale», intriso ad un tempo di ortodossia e di liberazione. Se negli anni '70 del secolo più drammatico della storia umana, l'ideologia italiana versava nella crisi interna al movimento operaio, con la deriva leninista e rivoluzionaria, da un lato, e l'autonomia del politico marxian-schmittiana - un vero cortocircuito -, dall'altro, Wojtyla, genialmente rompe le righe del conformismo clericale e misura la sua teoria antropologica di impianto tomistico e scheleriano direttamente con la storia e la progettualità umana. La severa lezione del comunismo aveva sottratto all'immaginario utopistico ogni tratto paramisticheggiante, il comunismo essendosi rivelato, sic et simpliciter, una religione senza Dio. Quel che mancava, nel panorama storico-politico, era un discorso pubblico sostanziato da una teologia della storia, con ordine provvidenzialistico, epperò non distratto dai manicheismi di scuola o dai nuovi modernismi clericali: una teologia politica non ancorata al conflitto antagonistico-rivoluzionario amico-nemico. Wojtyla giunge così a produrre l'unica teologia politica cristiana del '900 non impastata né di reazionarismo sterile alla Donoso Cortes, né di misticismo progressista e ottimistico alla Teilhard de Chardin. È il vero superamento della teologia politica di Carl Schmitt, in qualche modo circolante, ancorché nella cifra misurata e bilanciata tatticamente della deterrenza, nel conflitto tra i due blocchi, quello europeo-occidentale e quello sovietico. È l'uomo formatosi alla scuola della parola che salva del teatro polacco della resistenza al nazismo, come, parimenti, dell'etica della responsabilità cristiana, a cambiare le categorie della politica. Un approccio meta-politico che ridefinisce la politica come tale. La cristianità si salda ad un progetto storico e salva anche la politica mondana, degli Stati. È la missione del Papato a creare il novum storico. Attraverso essa avanza la santità, forte della Croce di Cristo, e, con il segno di una fede salda e una speranza indefettibile. La «civiltà dell'amore» è il segno tangibile della Resurrezione del Signore della storia. Se cogliamo con il metodo apologetico e circolare di Wojtyla il segmento teologico della sua produzione e lo stile della sua azione di Pontefice, ci accorgiamo come - dalla Redemptor hominis, 1978, alla Centesimus annus, 1990, per tracciare due secche linee storiche - niente va perduto del nesso evangelizzazione-politica. Utopia? Ma la parola «utopia» è l'invenzione teo-politica di Thomas More, martirizzato dal Leviatano dell'ateo Enrico VIII. L'utopia di More non è né un costruttivismo totalitario, né una palingenesi sociale, ma un'idea di immaginazione politica per la salvezza, anche storica, dell'umanità. Uno spazio non colonizzato dalla brutale macchina del dominio, ma, al contrario, segnato dalla presenza di Cristo. C'è un filo rosso che lega Thomas More al Beato Giovanni Paolo II: la politica per la salvezza dell'uomo.