L'esame di coscienza che serve all'informazione
Caro direttore, credo che l'informazione, cioè il nostro mestiere, al pari della politica e della magistratura, non possa sottrarsi a quello che tu giustamente definisci «il nocciolo culturale della faccenda» esplosa con la guerriglia di sabato scorso a Roma, e con le polemiche che ne sono derivate. Il tentativo grottesco di rispolverare la vecchia teoria del doppio Stato scambiando il nostro Fabio Di Chio per un agente, o qualcosa di simile, impegnato a sovrintendere alle devastazioni dei teppisti, funzionali a chissà quale vantaggio di chissà quale entità più o meno di governo, non è il solo incidente in cui è incorsa la Repubblica, di carta. E che tu hai smascherato cercando signorilmente di divertirti, e di divertire i lettori, più che di indignarti, e di indignarli, ritenendo forse non a torto che di indignazione dovesse o potesse bastare ed avanzare quella che è sfilata per le strade della Capitale. E che per un pelo ci ha risparmiato il morto da troppe parti atteso, addirittura annunciato, per tentarne la solita strumentalizzazione contro l'altrettanto solito Cavaliere, ostinato a non dimettersi da presidente del Consiglio. E a non regalare alla già vorace speculazione finanziaria anche il piatto di una devastante crisi al buio, reclamata da opposizioni per il resto divise su tutto, a cominciare dal programma -vero, non per titoli- di un nuovo governo, comunque lo si voglia chiamare. Ho trovato grottesca, purtroppo sempre sulla Repubblica di carta, anche la cronaca di un tentativo degli agenti di Polizia di identificare subito al Pronto Soccorso dell'ospedale San Camillo, tra le proteste e le resistenze dei medici, e forse anche degli infermieri, i teppisti che vi erano stati trasportati in ambulanza da Piazza San Giovanni e dintorni. Fra i quali, peraltro, ce n'era solo uno con il codice rosso, che potesse oggettivamente consentire, o far comprendere, l'insofferenza di chi voleva trattenere gli agenti dai loro doveri investigativi. La cui rapidità era direttamente proporzionale ai risultati che potevano conseguirne in quelle ore, mentre ancora i complici dei teppisti feriti mettevano a ferro e a fuoco la città. Da quella cronaca traspariva simpatia, o comprensione, più per le singolari resistenze dei medici, e assistiti, che per la fretta degli agenti. Ugualmente grottesco, infine, per non dire di più, ho trovato l'anonimato concesso e garantito, sempre sulla Repubblica di carta, ad un protagonista della guerriglia. Diversamente non saprei definire l'intervistato - «figlio della buona borghesia», assicuravano gli intervistatori - che si compiaceva dell'accaduto, ne svelava la preparazione per irridere chi avrebbe dovuto sventarlo, e per avvertire che «non è finita», dovesse pure costare la prossima volta il morto mancato sabato scorso. Sarò vecchio, e magari anche negato per questo mestiere, evidentemente da me esercitato malissimo, ma ho una certa difficoltà ad apprezzare come uno scoop, con tanto di copertura - ripeto - dell'anonimato, questo contributo ad una intollerabile sfida allo Stato e al buon senso. E rimpiango i giorni e gli anni in cui i giornali si dividevano drammaticamente, fra di loro e al loro interno, sulla opportunità o meno di pubblicare i deliranti messaggi dei terroristi. Che ne reclamavano la diffusione come condizione per non ammazzare o per prolungare l'angoscia dei loro ostaggi. Mi dirai, caro direttore, che non siamo in quegli anni di piombo. Ma temo che ci stiamo avvicinando, immersi come siamo in quello che tu stesso chiami «un clima di tensione straordinario». In cui a nessuno dovrebbe essere permesso, senza protestare, di contribuire a far salire ancora di più il termometro. Il che non avviene solo quando il mio, e forse anche nostro comune amico Valentino Parlato, con disarmante trasparenza si lascia sfuggire sul suo Manifesto, letto da certi fanatici della rivoluzione sicuramente più del nostro giornale, che la guerriglia di sabato scorso a Roma era «inevitabile», e comunque «istruttiva» della «urgenza di uscire dalla crisi». Certo, anche la morte è un modo di uscire da una malattia. Ma vallo a dire a chi vuole guarire.