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La strana democrazia del Pd che vuole cacciare i Radicali

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Sarebbe fin troppo semplice citare l'articolo 67 della Costituzione, quello che recita che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Nel Pd lo conoscono sicuramente a menadito avendo trascorso gli ultimi vent'anni a difendere la Carta dall'assalto di Silvio Berlusconi. Eppure fanno fatica ad accettarne il senso. O meglio, lo accettano a fasi alterne. Così, se Gianfranco Fini prende un gruppetto di eletti nel Pdl e passa nel campo dell'opposizione, è un eroe della democrazia. Se Domenico Scilipoti passa dall'Idv alla maggioranza, è un «venduto». E con lui tutti quelli che negli ultimi mesi hanno fatto lo stesso percorso. Ma i «transfughi» non sono gli unici su cui i Democratici esercitano l'arte del due pesi due misure. Dopo il voto di fiducia chiesto e ottenuto dal Cavaliere, anche i deputati Radicali eletti nelle liste del Pd sono stati improvvisamenti privati della possibilità di agire «senza vincolo di mandato». Così sono diventati dei nemici da abbattere. Indegni di militare in un gruppo che ha pur sempre scelto la parola «democratico» per rappresentarsi. La colpa dei «pannelliani»? Aver disubbidito agli ordini di scuderia decidendo, giovedì, di entrare in Aula per ascoltare le comunicazioni del premier, e venerdì di votare alla prima chiama, rendendo vano il tentativo di far venire meno il numero legale. Ora la cronaca ci dice che i Radicali, entrati quando avevano votato appena 300 deputati della maggioranza, non sono e non sarebbero stati determinanti. E poi hanno comunque votato contro la fiducia quindi, non hanno tradito il loro mandato elettorale visto che militano all'opposizione. Eppure la rabbia del Pd monta con il passare delle ore. Tanto che «un'amica storica dei Radicali» come Giovanna Melandri spiega che con loro «c'è un problema politico grande come una casa» e alza le mani davanti a chi da tempo chiede la loro espulsione, perché stare «come una testuggine dentro un gruppo parlamentare» è «un atteggiamento insopportabile». Anche se lo «stronzi» con cui Rosy Bindi li ha apostrofati venerdì resta per ora ineguagliabile vetta di senso delle istituzioni e delle democrazia. La stessa Bindi che, inviata da Pier Luigi Bersani al congresso radicale dello scorso anno per fare da paciere, sentenziò: «Radicali e democratici possono proseguire insieme la loro battaglia per la legalità, l'onestà e la moralità». Di certo un po' di onestà non farebbe male neanche al Pd. Walter Veltroni, ad esempio, potrebbe ricordare quando nel 2008, da segretario, spiegò che la soluzione migliore era aprire le liste del Pd ai candidati di Marco Pannella: «Così riusciremo a far convivere l'identità radicale e la presenza nelle istituzioni della Repubblica». E Dario Franceschini potrebbe invece ricordare quando, lo scorso marzo, assicurava: «Finché io sarò capogruppo noi staremo qui a fare le nostre battaglie. Noi restiamo in Aula a fare il nostro dovere». Certo, qualcuno potrebbe obiettare che in questi giorni sono state messe in atto strategie parlamentari. Ma a parte il fatto che si sono dimostrate assolutamente fallimentari, perché attaccare in questa maniera i Radicali? Poco male, mentre il Pd si prepara ad «epurare» i dissidenti, nel Pdl qualcuno comincia a tendere la mano al partito di Marco Pannella. E se il senatore Massimo Baldini invita a riaprire il dialogo, il capogruppo Fabrizio Cicchitto li loda per l'atteggiamento di questi giorni.

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