Il governo va avanti. Fiducia con 316 voti
A Montecitorio è appena finita la votazione per la fiducia: il governo conquista 316 sì (i no arrivano a 301). Il deputato del Pdl Antonello Iannarilli esce tra i primi: «Non sanno fa' i conti, hanno rotto i coglioni». Si riferisce all'opposizione, colpevole, a suo parere, di aver sollevato una tempesta in un bicchiere d'acqua. Veramente l'incidente l'ha provocato la maggioranza pochi giorni fa andando sotto nel voto sul rendiconto 2010. Ma la minoranza ha tentato il colpaccio: far saltare il numero legale, con la speranza che qualche altro malpancista uscisse allo scoperto e tradisse il Cavaliere. Non è successo ma la tensione è alle stelle fin dalla mattina. L'asticella è a 315 ma si è sparsa la voce che i voti potrebbero essere 314, forse anche 313. Dunque il governo rischia di non farcela a portare a casa la fiducia subito. C'è anche chi teme che potrebbe cadere. Non va così. Anzi. Cinque Radicali non rispettano il diktat del Pd ed entrano in Aula alla prima chiama. Votano contro ma danno la sensazione, almeno al Pd, tanto che la Bindi è furiosa, di fare da stampella all'esecutivo. Invece la maggioranza è autosufficiente e i Radicali non sono decisivi. Alla fine i deputati che non hanno votato sono dodici. La maggioranza perde quattro voti. Innanzitutto Luciano Sardelli di Popolo e Territorio. Poi Santo Versace che nel cortile di Montecitorio si dice «sollevato» per la scelta di dire addio al centrodestra. Non ascolta i colleghi che tentano di «riconquistarlo», prende e se ne va. Stessa scelta di Giustina Destro, in buoni rapporti con Scajola, e di Fabio Gava, altro scajoliano, dato in avvicinamento all'Udc. Se sono quattro i voti «in uscita», tre sono quelli «in entrata». Adolfo Urso e Pippo Scalia, ex Fli, per la prima volta dopo lo strappo di Fini hanno votato la fiducia all'esecutivo. Con loro Andrea Ronchi, che però già aveva detto sì alla manovra bis. Discorso diverso per Antonio Buonfiglio, altro ex Fli, passato al movimento della governatrice del Lazio Renata Polverini. Il centrodestra era convinto del suo voto, i finiani sicuri della sua astensione. Alla fine, coerentemente con quanto dichiarato nella conferenza stampa nella quale annunciava di aver lasciato Fli ma di non entrare automaticamente nella magioranza, ha deciso di restare fuori. Gli ultimi due deputati a favore del governo, quelli che hanno consentito alla maggioranza di tirare un sospiro di sollievo, sono Antonio Milo e Michele Pisacane. Entrambi hanno atteso che la maggioranza raggiungesse quota 314. Mancava un voto, quello necessario per considerare valido lo scrutinio e tenere in piedi il governo. L'uomo della fiducia è stato Milo. Poi, a seguire, alla seconda «chiama» è giunto anche Pisacane. Ininfluente per il numero legale, ma capace di garantire la maggioranza assoluta al presidente del Consiglio. «Siamo nel centocinquantenario dell'Italia - sorride il leader dell'Udc Casini seduto su una panchina con altri colleghi - Il governo non poteva che essere salvato da Pisacane». Lui invece non ha dubbi: «Io assente? La stampa dovrebbe imparare ad aspettare» spiega Pisacane, che aggiunge: «Ho votato alla seconda chiama perché sono scaramantico. Voto sempre alla seconda chiama, può controllare». Il premier Berlusconi è soddisfatto. Dà una stoccata alla minoranza, che, dice, «ha tentato di portarci un agguato tentando di non far ottenere il numero legale, con un trucco del più bieco parlamentarismo». Poi assicura: «Mi trasferirò come sede principale di lavoro in Parlamento, perché le riforme varate dal governo devono essere trasformate in legge». Conferma che l'azione del governo punterà a cambiare «l'architettura istituzionale, con la legge elettorale, la riforma del fisco e la riforma della giustizia». Insomma, si va avanti. E l'ennesima fiducia al governo dimostra che il banco è ancora saldamente in mano al premier. E che sarà lui, ancora una volta, a decidere il futuro del centrodestra