Fini: dimissioni per tutti. Non per lui
Fare il presidente della Camera ed essere, contestualmente, il leader di un partito di opposizione ha i suoi vantaggi. Non c'è dubbio. Ma trovarsi sullo scranno più alto di Montecitorio ad assistere all'ennesima vittoria del governo, non deve essere facile. «Ormai le elezioni sono più vicine», aveva detto solo due giorni fa Gianfranco Fini. Ma niente da fare. «Con 316 sì e 301 no la Camera approva il provvedimento Cicchitto, Reguzzoni, Moffa su cui il governo ha posto la questione di fiducia», legge il presidente della Camera, a votazione conclusa. L'esecutivo è salvo. Le elezioni - almeno in teoria - più lontane. Per Gianfry è l'ennesima batosta. L'arbitro ha tentato lo sgambetto, ma il governo non è caduto. È la fine? Assolutamente no. Fini non si arrende. Anzi. «Il governo Berlusconi è pienamente legittimato a governare perché ha ottenuto due voti in più - ammette in serata durante una festa di Fli a Terracina - Tuttavia se non apre gli occhi più che governare continuerà a galleggiare», attacca. Il presidente della Camera continua la sua campagna elettorale e ripropone tutti i suoi cavalli di battaglia. Le intercettazioni? «In galera devono andare i criminali e non i giornalisti». La magistratura? «Non è certo un cancro da estirpare». L'equilibrio tra politica e giustizia? «Se un ministro è indagato dovrebbe fare un passo indietro». Gianfry, però, a un certo punto supera se stesso. «È molto triste - spiega - vedere tanti amici, ex amici con i quali sono state condivise battaglie politiche difendere oggi l'indifendibile per mantenere poltrone e poltroncine di potere». Il punto è questo: il fatto che lui occupi (da quasi un anno) la poltrona più alta di Montecitorio - quella che ha il dovere di garantire lo svolgersi imparziale delle attività parlamentari - pur guidando un partito che si oppone al governo, non è importante. Diversamente, è il Cav che deve dimettersi. Fini lo ha ripetuto mille volte. E la lista di quelli che - secondo il leader di Fli - devono abbandonare la poltrona non è finita. C'è anche Augusto Minzolini, colpevole di essere «fazioso» nella scelta del suo notiziario. «Fini ha una visione particolare del concetto di imparzialità», è la replica del direttore del Tg1. Ma Gianfry - quello amico dei giornalisti - ha annunciato querele. In realtà, però, il presidente della Camera non è così attaccato alla poltrona come sembra. Lui stesso ha minacciato in più occasioni di dimettersi. La prima volta è stata il 25 settembre del 2010. Siamo nel bel mezzo dello scandalo che riguarda la casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An dalla contessa Colleoni e venduta sottocosto ad alcune società off-shore dei Caraibi. In tanti credono che l'appartamento sia finito - dopo un gioco di scatole cinesi - in mano a Giancarlo Tulliani, fratello dell'attuale compagna del presidente della Camera. «Anch'io mi chiedo - dice Fini in un videomessaggio - chi è il vero proprietario della casa di Montecarlo. È Giancarlo Tulliani, come tanti pensano? Non lo so. Gliel'ho chiesto con insistenza. Lui ha sempre negato con forza. Restano i dubbi? Certamente, anche a me. E se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera». Chi sia il proprietario della casa di Montecarlo, non è ancora chiaro. Niente dimissioni, quindi. C'è, però, un'altra occasione. Siamo alla vigilia del voto di sfiducia al governo del 14 dicembre scorso. Fini è uscito dal Pdl e sfida il Cav. «Neanche chi crede a Babbo Natale può pensare che Berlusconi vincerà con 10 voti in più», spiega sicuro il leader di Fli, ospite di In 1/2 Ora. «Se Berlusconi ottiene la fiducia con 10 voti lei si dimette? Accetta questa scommessa?», chiede Lucia Annunziata. «Accetto la scommessa - risponde Fini - e le prometto che in quel caso comincio a credere a Babbo Natale». Finisce 314 a 311: la Camera dice no alla sfiducia. È lo stesso Fini a ufficializzarlo. Ma se la scommessa è ancora valida, visti i numeri della maggioranza, fiducia dopo fiducia, il presidente della Camera se la rischia.