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Malpancisti bipartisan e partiti in difficoltà

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Non vi è partito, fra i ben 25 che il nostro Alberto Di Majo ha scrupolosamente contato l'altro ieri facendo le pulci ai gruppi parlamentari, specie a quelli che si chiamano misti proprio per la loro multiforme composizione, in cui le acque si possano dire tranquille. Sono tutti affollati di malpancisti, dissidenti cioè dalla linea, quando si riesce a scorgerne una. Nella riunione degli amici, o compagni, di Walter Veltroni svoltasi ieri per chiarirsi le idee, il sulfureo e simpatico Giuseppe Fioroni ha contestato non la linea del Partito Democratico, ma «il profilo». Veltroni, dal canto suo, nel ribadire le sue ormai stranote critiche alle scelte o alle intenzioni di Pier Luigi Bersani, secondo lui attratto più dalle elezioni anticipate che da un governo di transizione in caso di crisi, ha stranamente assicurato che la sua non è una corrente e «non ha nel mirino il segretario». E che cosa è allora? E chi ha nel mirino, oltre al solito e scontatissimo presidente del Consiglio? È mistero. Più che con il segretario del suo partito, d'altronde, Veltroni è sembrato volere interloquire, fornendo loro una sponda, con i malpancisti del Pdl. Che negano anch'essi di avere il mal di pancia, ma di cui si avvertono ogni giorno i rumori in un partito dove il povero Angelino Alfano ha idee abbastanza chiare, ben esposte l'altro ieri a Saint Vincent, ma fatica a farle circolare bene per una certa confusione di ruoli incredibilmente certificata come un merito da Denis Verdini. Che è uno dei due coordinatori, con Ignazio La Russa, rimasti in carica dopo le dimissioni lodevolmente presentate da Sandro Bondi proprio per fare chiarezza. In particolare, Verdini ha raccontato ieri, in una intervista al «Corriere della Sera», di avere ricevuto dallo stesso Alfano, appena nominato o acclamato segretario, e dal presidente del partito, cioè da Silvio Berlusconi, il compito di «scrivere le deleghe» sue e degli altri coordinatori per evitare sovrapposizioni e pasticci. Sono passati più di tre mesi dal conferimento di questo incarico, ma Verdini ha ritenuto di non doverne fare nulla – ha dichiarato testualmente – «perché non lo trovo né urgente né indispensabile». «Abbiamo da lavorare e le priorità sono altre», ha aggiunto il parlamentare toscano. È incredibile ma vero. Immagino la soddisfazione di Alfano vedendo liquidare così un problema da lui avvertito, al pari del presidente del Consiglio, nel momento dell'insediamento e posto direttamente a Verdini in un modo che più cortese e costruttivo non poteva essere. E che proprio per questo meritava una rapida e leale soluzione. Le priorità sono altre anche nella Lega, dove la confusione e le tensioni sono ancora maggiori che nel Pd e nel Pdl, tanto da far perdere la testa sia ai dirigenti sia alla base, ma più ai dirigenti, a cominciare dal capissimo Umberto Bossi. Che domenica ha fatto sbarrare ridicolmente le porte del congresso leghista di Varese ai giornalisti: «mascalzoni» che non meriterebbero di raccontare le crescenti difficoltà che egli ha di imporre le sue decisioni e i suoi umori, anche al netto delle pressioni dei familiari o di quello che gli amici del ministro Roberto Maroni chiamano «il cerchio magico». I congressi leghisti, in verità, non sono nuovi a colpi di testa e di nervi di Bossi, che non ha mani gradito e tollerato più di tanto il dissenso interno, senza riguardi per nessuno. Non ne ebbe neppure per l'unico ideologo che abbia avuto il suo partito: l'indimenticabile professore Gianfranco Miglio, da lui liquidato come «una scoreggia nello spazio» a mezzo stampa. Ma, francamente, quello di Varese è stato il congresso leghista più clamoroso per gli abusi che vi sono stati commessi. Malpancisti non mancano neppure nell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, dove forse Tonino pensava di avere rimesso le cose a posto con la fortunosa, e per lui salvifica, elezione a sindaco di Napoli, nella scorsa primavera, di quel rompiscatole politico che aveva finito per rivelarsi l'ex collega in magistratura Luigi de Magistris. Il quale gli aveva un po' rubato la scena scavalcandolo - incredibile a dirsi e a pensarsi- sul terreno del giustizialismo. Ma la quiete è durata solo qualche mese. Persino nella sua terra molisana il partito gli è esploso in mano per la candidatura del figlio Cristiano alle elezioni regionali di domenica prossima. E nei suoi gruppi parlamentari serpeggia un crescente malumore, che prima o poi scoppierà, magari anche con qualche emulo di Domenico Scilipoti, per le continue tensioni con il presidente della Repubblica. Al quale non c'è ormai giorno che passi senza che Di Pietro, spalleggiato in verità da Eugenio Scalfari e persino da qualche professore universitario a dir poco avventuroso, chieda messaggi e altri interventi dal sapore e tenore «golpista». Come rileva spesso, sfiduciato e allarmato, il buon Emanuele Macaluso, vecchio amico di Giorgio Napolitano.

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