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La Costituzione immaginaria

Il premier Silvio Berlusconi si alza per uscire dall'aula della Camera dopo la votazione

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Tanto è grave l'incidente occorso ieri al governo nell'aula di Montecitorio, dove i deputati a parità di voti hanno bocciato il primo articolo del rendiconto di bilancio dello Stato, quanto è irresponsabile la speculazione istituzionale che ne hanno subito tentato le opposizioni reclamando l'apertura della crisi. O, peggio ancora, come ha fatto il solito Antonio Di Pietro, un intervento del presidente della Repubblica per obbligare, chissà come, il presidente del Consiglio alle dimissioni. E magari anche per interrompere la legislatura e mandare il Paese alle urne, facendo controfirmare chissà da chi il decreto di scioglimento anticipato della Camera e - visto che si trova - anche del Senato. Quel decreto non può prescindere dalla firma del capo del governo, che è ancora Berlusconi, non rimovibile d'autorità. C'è anche qualche professore incredibilmente in cattedra nelle Università che scrive sui giornali, e forse insegna che al Quirinale potrebbero fare una pernacchia al Cav refrattario al decreto di scioglimento delle Camere e ricorrere alla Corte Costituzionale. In attesa che il presidente della Repubblica ricorra e la Corte decida, che cosa si fa in Parlamento? E i mercati che fanno dei nostri titoli di Stato? Li mandano a quei professori, o ai giudici costituzionali, per farne valutare la consistenza? Via, cerchiamo di essere seri. E leggiamo la Costituzione -quella che il segretario del Pd definisce sempre "la più bella del mondo"- per ciò che vi è scritto davvero, non per ciò che immaginano le opposizioni e i loro presunti esperti. L'articolo 94 dice che «il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni». Ebbene, il rendiconto di bilancio, di cui i deputati peraltro hanno bocciato il primo articolo e non l'intero testo, è una proposta del governo. La cui bocciatura, parziale o totale, non comporta quindi obbligo di crisi da parte del premier, convinto di trovarsi di fronte ad un problema di natura "tecnica" e deciso a verificare e certificare ancora una volta l'esistenza della maggioranza nell'unico modo previsto dalla Costituzione, cioè con una votazione di fiducia. Ch'egli stesso potrebbe promuovere presentandosi alle Camere per comunicazioni. Il Cavaliere sbaglierebbe tuttavia a valutare l'accaduto solo sul piano tecnico. Vi sono anche aspetti politici che, pur senza legittimare le richieste di crisi avanzate dalle opposizioni, egli non può ignorare, né sottovalutare.   Ci sono state nella maggioranza e nella stessa compagine ministeriale assenze che si sono rivelate decisive per l'esito della votazione e meritano di essere chiarite sino in fondo, e a qualsiasi prezzo. Chi non ha sufficiente consapevolezza dei suoi doveri, dei suoi obblighi di lealtà, della delicatezza della situazione della maggioranza e, più in generale, del Paese deve essere messo con le spalle al muro e obbligato alla serietà, anche delle dimissioni personali. Fra le assenze, la più sconcertante è stata sicuramente quella del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, le cui spiegazioni diffuse dagli uffici appaiono francamente deboli per tempi e contenuti. Su tutto doveva prevalere la valutazione della sua primaria competenza sul rendiconto di bilancio all'esame della Camera. L'assenza più inquietante e purtroppo scontata, per i suoi risvolti istituzionali, è stata invece quella di Alfonso Papa, il deputato del Pdl che i magistrati di Napoli continuano a trattenere in carcere, indebolendo una maggioranza che ha pochi voti di scarto, anche dopo averlo rinviato a giudizio, quando cioè di solito cadono le esigenze della detenzione prima del processo.

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