Cambiare per andare avanti
Servono stabilità e credibilità, riforme strutturali che ridiano fiato al mercato, serve la forza politica di rompere il peso opprimente delle corporazioni e delle rendite. Tutto vero, ma a dirlo son tutti buoni. A farne oggetto d'accorata indignazione sono buoni prima di tutto i buoni a nulla. Il problema è: come? L'immobilità in cui è piombata la politica, da molto tempo, causa e riflette l'immobilità sociale e produttiva. Esiste un punto d'appoggio su cui far leva, per provare a cambiare? Non nelle fanfaluche politiciste di chi reclama governi tecnici e assegna loro il compito di riformare il mercato e il sistema elettorale. Non sono materie governative, ma legislative, e non ci sono maggioranze omogenee capaci di maneggiarle. Ci troviamo in una condizione simile a quella dei belgi: loro con un governo che nasce dopo 18 mesi di crisi, noi con un governo che non muore, dopo una crisi non meno lunga. Da loro come da noi la via d'uscita è istituzionale. Un percorso politicamente sensato c'è. Prima di tutto si deve chiarire che il problema dell'aggressione ai titoli del debito pubblico non è made in Italy. Può essere divertente vedere gli italiani tribolare appresso agli spread, ma a saltare sono le banche francesi e tedesche, a essere raso al suolo sarà il sistema creditizio europeo. Può essere gratificante dire ai greci cosa devono fare, sperando che non s'accorgano di come hanno fatto gli islandesi, salvando il loro mercato interno e dando la fregatura agli speculatori, ma quel che non ha funzionato è nel meccanismo del patto di stabilità, è in Europa. Può essere affascinante predicare il rigore continentale, ma i pulpiti sono affollati da gente che pretende di salvare il welfare asfissiando il mercato, laddove si dovrebbe fare l'esatto contrario. Quindi, se al governo e nei governi ci fossero governanti oggi sarebbero impegnati a mostrarsi attivi nell'unica sede pertinente: l'Unione. In quanto alle nostre faccende interne, agosto ha minato la credibilità governativa, in buona parte sprecando i frutti del rigore praticato nella spesa pubblica, ma settembre ha incenerito le credibilità alternative. Chi sarebbe credibile, gli industriali che firmano accordi con i sindacati, in modo da neutralizzare quel poco che nel decreto c'è? Ci vuol fantasia per credere che da questa premessa si giunge al taglio della spesa previdenziale, pensionistica e sanitaria. È credibile un governo tecnico? S'è subito spappolato sul primo scoglio politico: la patrimoniale. È credibile la cacciata delle destre inette per intronare questa sinistra (posto che altre non ne abbiamo)? Suvvia. E allora? Allora si deve saper fare politica: anziché perder tempo, e dignità, nel raccontare che i berlusconiani, in privato, ti dicono che Berlusconi se ne deve andare (fanno tenerezza i frondisti che contano di sopravvivergli), sarà meglio mettere a frutto il fatto che chiunque sia ragionevole sa che l'attuale architettura istituzionale non regge più. È già sfracellata. Solo che non c'è né coraggio né forza per dirlo. E allora: tocca a questo governo mettere le pezze ai conti, per fronteggiare la tempesta speculativa, al tempo stesso si va verso le elezioni. Se si vuol cambiare il sistema elettorale o si vuol fare il referendum ci si rivede tutti nel 2013. Se si ha fretta, come credo, si vota a primavera, sapendo che nessuno vincerà, che il primo partito sarà quello del rifiuto, che (in ogni caso) il sistema elettorale consegnerà una maggioranza alla Camera dei Deputati e puntando sull'ingovernabilità del Senato, in modo da mettere le premesse per una legislatura di riscritture costituzionali e corresponsabilità gestionale. Mi pare l'unico modo per salvare il buono del bipolarismo, ove l'alternativa è la proliferazione gruppettara in un'orgia centripeta. E se ci fosse una maggioranza assoluta, di eguale colore, in entrambe le Aule? A quella spetterebbe il nuovo Presidente della Repubblica, salvo attendere che la maggioranza si sfasci, come si sfascerà, e riprendere dalla casella precedente. Si perderebbe del tempo, come lo si perse nel 2006, quando Romano Prodi non volle ammettere il pareggio. Questo è un percorso che richiede intelligenza politica e prudenza istituzionale, sempre che non s'imbocchi la scorciatoia del commissariamento della democrazia. Che non ha mai portato bene.