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Se saltano troppi Grilli

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Fmi, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e Vittorio Grilli  del Tesoro

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«Per Bankitalia preferisco Grilli, non fosse perché è di Milano». Di tutte le motivazioni che potevano spingere Umberto Bossi ad infilarsi nella partita di palazzo Koch, siamo alla più ridicola. E crediamo che il destinatario di simili attenzioni, Vittorio Grilli appunto, vorrà sottrarsi a una sponsorizzazione che potrebbe risultare imbarazzante. Che dire per esempio del salvataggio di Credieuronord, la banca leghista, tentato anni fa da Gianpiero Fiorani e benedetto da Antonio Fazio, l'ex governatore nato per giunta ad Alvito, provincia di Frosinone? O delle manovre bossiane del 2010, per difendere attraverso le fondazioni «nordiche» l'Unicredit dalle «mire dei tedeschi»? Come sono andate le cose lo sappiamo. La banca del Carroccio è fallita. L'Unicredit probabilmente avrà bisogno di una terza ricapitalizzazione. Un altro istituto di simpatie tremontiano-leghiste, la Bpm guidata finora da Massimo Ponzellini, è attraversato da gravi problemi di governance e di capitali. È con queste credenziali che Bossi dice la sua sulla scelta del successore di Mario Draghi, una decisione ormai urgente, con i fari dei mercati e della Bce puntati sull'Italia? Ricapitoliamo. Con la riforma del 2005, voluta proprio da Berlusconi e Giulio Tremonti dopo le rovinose dimissioni di Fazio, la nomina del governatore spetta al capo dello Stato su proposta del capo del governo, «previa deliberazione del consiglio dei ministri che può arrivare solo dopo il parere del consiglio superiore della Banca d'Italia». Gli attori sono dunque principalmente due: Silvio Berlusconi, e con una sorta di moral suasion Giorgio Napolitano. Naturalmente l'opinione del ministro dell'Economia è anch'essa importante; come l'orientamento di via Nazionale: ma è in sostanza il premier che indica il capo di Bankitalia. Così fu scelto (da Berlusconi) Mario Draghi, alla vigilia di Natale di sei anni fa, contro le perplessità di Tremonti ed anche del Quirinale, dove sedeva Carlo Azeglio Ciampi. Nessuno può dire che non fu la decisione migliore. Draghi ha ridato credibilità al sistema bancario italiano, è un interlocutore influente in Europa, a novembre prenderà il posto di Jean-Claude Trichet come presidente dalla Bce. Anche Grilli è un civil servant di assoluto valore e prestigio. Come direttore generale del Tesoro è stato il principale collaboratore di Tremonti nel vigilare sui conti e sulla spesa; un ruolo che non dovrà venire meno, con vuoti di potere, neppure adesso che (giustamente) tutti predicano assieme al rigore anche la crescita. Però da tempo Tremonti ha personalmente e impropriamente promesso a Grilli di andare in Bankitalia. Lo ha fatto scavalcando lo stesso Cavaliere, in un periodo nel quale il ministro era ancora Super-Giulio, mentre in Europa il ruolo della Bce non svolgeva opera di supplenza rispetto ai governi, e soprattutto l'Eurotower non era corsa in soccorso dei nostri Btp. Ma ad agosto l'Italia ha dovuto riscrivere di sana pianta la manovra, con una strettissima triangolazione fra Berlusconi, Draghi, Trichet e Napolitano. Questi, e non altri, hanno evitato il baratro. Questi, e non altri, hanno adesso indicato per il Paese una fase due di tagli mirati (e non più tremontianamente lineari) e soprattutto di misure per lo sviluppo. È quanto Draghi predica da anni, e Trichet lo ha ripetuto ieri dalle colonne del Corriere della Sera. In tutto ciò ovviamente l'ottimo Grilli non c'entra nulla, non vede sminuita la propria competenza, e non si capisce né perché Tremonti si incaponisca sul suo nome – arrivando a decrivere Draghi come una sorta di galeuter di Berlino – né come mai Bossi voglia gettarne il nome nel tritacarne delle nomine politiche. L'idea di Tremonti è che Grilli debba andare in Bankitalia per non creare rogne del governo, quasi che il governo se la passasse splendidamente; mentre in Europa si cerca di separare le scelte delle banche centrali da quelle dei politici. L'idea di Bossi, probabilmente, è di utilizzare questa vicenda nella guerra leghista tra lui e Roberto Maroni. Bankitalia ha da tempo espresso la preferenza per la successione interna, del direttore generale Fabrizio Saccomanni, che per Bossi ha il grave torto di essere nato a Roma. In passato via Nazionale ha fatto dell'autoreferenza una sorta di dogma, ma non è questa la situazione attuale. C'è invece da proseguire un doppio lavoro e da farlo sul filo dell'emergenza: sul sistema bancario italiano che come ovunque è esposto ai mercati e alle necessità di rafforzarsi; e di raccordo con la Bce. Per questi motivi il Cavaliere sembrava aver accolto la scelta. Ma ora a palazzo Chigi si moltiplica il tourbillon di visite. Ieri sono tornati sia Draghi sia Tremonti, il primo è salito anche al Quirinale, mentre il consiglio di Bankitalia ha logicamente fatto sapere di voler difendere la propria autonomia. Si rischia un pasticcio, l'ennesimo. Dal quale Berlusconi deve tirarsi fuori al più presto. Con o senza Tremonti. Con o senza Umberto Bossi nell'improbabile ruolo di advisor.

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