Ho sognato il ritorno del Papa Re
Un sogno. Un sogno di una notte di mezzo autunno. Un sogno che, evidentemente, ha a che fare con l'immagine di Umberto Bossi intento a celebrare, lungo il corso del Po, l'annuale rito iniziatico intriso di religiosità laica o secolare. Eccolo lì, Umberto Bossi, camicia verde e fazzoletto verde al collo, mentre battezza, con l'ampolla con l'acqua del fiume sacro, il figlio, "Il trota", designandolo come futuro capo della Padania. Poco conta il fatto che la Padania non esista, perché in termini di cultura e di etnicità, quei territori tanto cari all'immaginario leghista non hanno nulla che li tenga insieme se non questioni di natura economica, interessi corporativi, mal di pancia politici. Quel che conta, per il sommo sacerdote e per il suo folcloristico clero di verde vestito, è la ricerca di un (ormai) improbabile consenso di massa attraverso il recupero artificioso del concetto di nazione, come mito fondante, e del concetto di secessione, come mito mobilitante. Sono armi spuntate, è vero, ma il cui clangore accompagna l'agonia della (forse mai nata) seconda repubblica. E allora, eccolo, il sogno sul futuro della seconda repubblica: il sogno di una notte di mezzo autunno propiziato dalle rinnovate velleità secessionistiche di Bossi e dai ritorni di fiamma per un federalismo dai contorni vaghi. Questa repubblica ormai puteolente, immersa negli scandali fino al collo, con le istituzioni private della loro sacralità (che è, non dimentichiamolo, la base legittimante di una democrazia liberale), abitata (politicamente parlando) da comparse da operetta e da guitti da avanspettacolo che attraversano disinvoltamente e più volte, fra andate e ritorni, gli emicicli parlamentari, sta ormai per tirare le cuoia. Ci sono tutti i presupposti per un bel colpo di Stato. Non un colpo di Stato, alla maniera dei Golpe di colonnelli o generali in divisa - non ve ne sono neppure che abbiano, riconosciamolo, le phisique du rôle adatto - con l'ausilio di servizi segreti più o meno deviati e più o meno legati a potenze straniere, ma un colpo di Stato di tipo nuovo, nostrano, casalingo, senza spargimento di sangue e destinato a svilupparsi tra la sorniona curiosità e la paciosa indifferenza dei romani. Il mio amico Giovanni Battista Ansaldo mi aveva scritto sconsolato, qualche tempo fa, dalla sua Genova, una letterina che concludeva con una battuta sulla malinconica fine della seconda repubblica: «Io, ormai, sono per il Papa-re!». È da questa battuta, combinata con la sacra rappresentazione dei riti padani, che scaturisce il sogno. Questo sogno di una notte di mezzo autunno. È proprio una bella mattina d'autunno, di quegli autunni romani che concludono dolcemente l'estate al tepore di un sole non troppo forte. In piazza San Pietro davanti al colonnato sono raccolti drappelli di guardie svizzere, in ordine, sull'attenti, in atteggiamento marziale, con le alabarde, l'elmo, il pennacchio rosso e le pittoresche divise rinascimentali a strisce blu e arancione. A un certo punto i drappelli si mettono in moto, tra gli sguardi incuriositi della popolazione. Percorrono via della Conciliazione, attraversano il Borgo (o quel che ne resta), fiancheggiano Castel Sant'Angelo, si inoltrano per i vecchi luoghi della Roma papale e, divisi in tre gruppi, giungono all'ingresso di Palazzo Madama, di Montecitorio e di Palazzo Chigi. Qui, davanti ai portoni e nelle garitte si trovano di fronte pochi carabinieri. I quali, naturalmente, non sanno come comportarsi. Non hanno ricevuto ordini e decidono, seduta stante, per il "presentatarm". È fatta. Le guardie svizzere, guidate dall'Oberst e dell'Oberstleutenant, cioè dal comandante e dal vicecomandante, entrano nei palazzi del potere. Con le alabarde - ma di piatto per evitare spargimento di sangue - vengono allontanati e isolati tutti i parlamentari e lo stesso presidente del Consiglio. Nella piazza si raduna gente, persone comuni, turisti incuriositi e giornalisti nullafacenti. Qualcosa sta accadendo, ma non si sa cosa. A un certo punto, dal balcone di Palazzo Chigi appare una figura ieratica e solenne. È il cardinale Camillo Ruini: lui sì che ha le phisique du rôle, è stato vicario del Pontefice per la Diocesi di Roma e, a quanto si racconta, amava, da piccolo, giocare con i soldatini. Rivolge uno sguardo intenerito, pronunzia due sole parole - «Siamo tornati!» -, benedice la folla e si ritira. La piazza esulta, un boato di applausi. Solo pochi dei presenti mugugnano preoccupati. Loro, sì, che hanno capito: sono intelligenti, frequentano i salotti radical chic e le pagine politiche e letterarie della stampa à la page. Paolo Flores d'Arcais si agita e pensa di organizzare un girotondo di protesta con Paul Ginsborg e Pancho Pardi, mentre Gad Lerner sfoglia il taccuino alla ricerca di ospiti per il suo Infedele disposti a stabilire un collegamento tra il bunga-bunga di Berlusconi e il golpismo di Ruini. Il sogno non finisce con il ritorno del Papa-re. Va avanti perché, come indicano quelle due parole («Siamo tornati!»), il ricostituito Stato Pontificio non ha ambizioni imperialistiche. Si contenta dei confini storici. Ma mette in moto la sperimentata diplomazia vaticana per ridefinire la carta geopolitica della penisola recuperando vecchie dinastie e creandone di nuove, in modo tale da riportare in vita, sotto la supervisione di Roma, Stati e Staterelli d'antica storia e ricche tradizioni. La seconda repubblica lascia il posto a un'Italia nuova e antica al tempo stesso. Altro che secessione! Altro che federalismo! Peccato che sia un sogno. Un sogno di una notte di mezzo autunno.