Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

La strategia urlata di Di Pietro

Esplora:
Antonio Di Pietro

  • a
  • a
  • a

È inutile, e alquanto ipocrita, lamentarsi dell'arroccamento di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi se si continua dall'opposizione politica e mediatica a reclamarne le dimissioni con motivazioni e linguaggi provocatori. Se non irresponsabili, come nel caso di Antonio Di Pietro. Che ha chiesto ieri la crisi «prima che ci scappi il morto» nelle piazze, non rendendosi forte conto - speriamo - che così egli finisce per incitare i malintenzionati ad abusare del diritto di protesta per arrivare all'incidente.   Eppure Di Pietro prima di fare il politico e il magistrato è stato, fra l'altro, un poliziotto. Anzi, un dirigente di Polizia. E come tale dovrebbe avere delle piazze e dintorni, e dei loro rischi, una certa conoscenza. O si deve sospettare che gli piaccia giocare con il fuoco come o peggio di un piromane? Si trattenga adesso, per cortesia, dalla solita tentazione di sporgere querela, e di contribuire ad intasare il lavoro dei tribunali allungando l'elenco delle sue cause a giornali e giornalisti. Qui stiamo facendo polemica rigorosamente politica, peraltro senza strabuzzare gli occhi, farci gonfiare le vene, perdere il controllo dei congiuntivi e pasticciare con aggettivi, sostantivi, avverbi e quant'altro, come spesso capita a lui. Che simpaticamente lo riconosce ammettendo di parlare "dipietrese", più che italiano, quando va su di giri. "Tonino", come lo chiamano gli amici, ce lo siamo del resto trovati felicemente a fianco, noi a Il Tempo, proprio di recente nella sacrosanta lotta alle inutilissime e costosissime province. Penso pertanto che sia forse ancora possibile invitarlo da queste pagine a contenersi in una lotta senza quartiere, direi ossessiva, al Cavaliere. Nei cui riguardi, peraltro, solo qualche mese fa, all'indomani dei referendum vinti sull'acqua, sul nucleare e sul già declinante "legittimo impedimento" processuale del presidente del Consiglio, egli aveva promesso di cambiare tono o registro come oppositore, sino ad attardarsi con lui a parlare amichevolmente nell'aula della Camera, anche a costo di procurare a Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini e compagni un mezzo travaso di bile.   Piuttosto, sarebbe auspicabile che Di Pietro impiegasse le sue inesauribili energie oratorie e mimiche, e la sua competenza giudiziaria, per invitare gli ex colleghi pubblici ministeri in servizio a Napoli a non insistere nei tentativi di resistenza all'ordinanza del giudice di mollare per incompetenza territoriale le indagini sull'affare Tarantini-Lavitola, e trasferire gli atti a Roma. Come, del resto, il capo della Procura vesuviana aveva mostrato in un primo tempo di essere deciso a fare, sino a quando evidentemente qualcuno non gli ha tirato la giacca, temendo forse che i magistrati della Capitale accertino la irregolarità di alcune stranissime intercettazioni effettuate sulle utenze telefoniche del presidente del Consiglio. Che sono servite sinora più a sputtanarlo sui giornali che a tutelarlo come parte lesa di un ricatto, o a trasformarlo da parte lesa a indagato, come si aspettavano e si aspettano ancora i suoi avversari. Più a Napoli quei magistrati resisteranno nella loro anomala trincea per alimentare la leggenda di un presidente del Consiglio renitente ai suoi obblighi di "testimoniare", più Berlusconi avrà ragione a diffidarne. E a mandare a quel paese quanti gli chiedono il famoso passo indietro, con le cattive o con le buone, come se lui fosse non una parte lesa, non un testimone, ma un imputato condannato in via definitiva. Non si capisce, poi, di quale reato in particolare.  

Dai blog