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Per il Carroccio è finita un'epoca

Umberto Bossi

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L'autunno del patriarca coincide con la trasformazione della Lega, che si chiama e si richiama al "Nord". Ma, a dispetto del nome che porta e della - per così dire - ragione sociale... Ma, a dispetto del nome che porta e della - per così dire - ragione sociale, il partito fondato e guidato da Umberto Bossi per sollevare la questione settentrionale, ha ormai acquisito un profilo nazionale. Al punto tale che i riti dell'ampolla o i deliri della secessione non fanno neanche più scalpore: fanno solo folclore. Come per buona parte dell'intero arco politico, anche Bossi fa parte della vecchia classe dirigente del Paese, e non perché abbia appena compiuto settant'anni. Vecchio è il mondo e il modo di fare politica dai quali proviene. Basti ricordare che il Senatùr è stato così soprannominato perché cominciava la sua attività parlamentare non a Montecitorio, come la maggioranza dei leader di partito, ma a palazzo Madama. Quasi venticinque anni fa, nel 1987. C'erano, allora, la prima Repubblica e il pentapartito al governo. Il democristiano Giovanni Goria sedeva a palazzo Chigi. Sembra un secolo fa, se si pensa che perfino il muro di Berlino faceva, ancora, brutta mostra di sé. Quella Lega, la Lega delle origini si batteva per l'autonomismo: la parola "federalismo" non era di moda. Oggi e da tempo la Lega ricopre alti incarichi istituzionali. Al vertice del ministero dell'Interno c'è Roberto Maroni. Ministero di tale rilevanza che per decenni fu assegnato soltanto al partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana. Di più. Pochi ricordano che nel primo governo-Berlusconi, Maroni finiva al Viminale tra molti paletti e precisi altolà posti formalmente e pubblicamente dal presidente della Repubblica dell'epoca, Oscar Luigi Scalfaro. A Roma non si fidavano di quella Lega troppo di lotta e troppo poco di governo. Oggi, quasi vent'anni dopo, l'approccio leghista e la percezione politica del leghismo si sono rovesciati, nel senso che il partito di Bossi-Maroni è molto più di governo che di lotta. Governo anche in numerosissime amministrazioni del Nord, e nelle regioni che più contano. Di più. Il Piemonte e il Veneto hanno un presidente -detto "governatore"-, leghista. Il che rivela la comicità dei proclami separatisti appena rievocati a Venezia: come potrebbero veneti e piemontesi separarsi da se stessi? E come potrebbero ministri che hanno giurato fedeltà alla Repubblica una e indivisibile, e che nel 2006 hanno contribuito a riscrivere il reato di attentato contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità dello Stato, ipotizzare un referendum per tagliare l'Italia in due? In realtà, al di là della pur sgradevole provocazione, andando oltre le parole inaccettabili con cui una parte della dirigenza leghista ancora crede, o spera, di fare un dispetto a Roma per lisciare quella piccola fetta di elettorato nordista che vive di risentimenti, il movimento del Carroccio ha subìto l'evoluzione dei fatti. Come in Baviera, dove la potente Csu mai potrebbe interpretare un ruolo anti-tedesco nel panorama nazionale, così la Lega è costretta a battersi per il "made in Italy", se vuole salvare le produzioni alimentari locali e appoggiare l'imprenditoria che intraprende nelle regioni-locomotive del Paese. Il contesto nazionale e l'amor di patria (vedi alla voce "Alpini") sono insiti nelle battaglie territoriali che i leghisti rivendicano con fervore. Il destino della Lega già "lombarda" e ora "Nord" è un destino sempre più italiano. E il "ruggito" di Bossi, come Il Tempo ha titolato la solita tiritera del patriarca sulla cosiddetta e inesistente Padania, è solo la conferma che un'epoca è finita.

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