L'Eugenio consigliere a tempo perso

Consigliere a tempo perso, pure lui, dei lettori della sua Repubblica, specie di quelli più altolocati, Eugenio Scalfari vorrebbe dal capo dello Stato un messaggio al Parlamento per «investirlo del problema della credibilità del governo». Un messaggio, cioè, contro il presidente del Consiglio per spingere «soprattutto la maggioranza», vale a dire i suoi settori più inquieti, a rovesciarlo, visto che le opposizioni da sole, neppure dopo il passaggio del presidente della Camera Gianfranco Fini nelle loro file, non sono riuscite a farlo nella cinquantina di votazioni di fiducia svoltesi, tra Montecitorio e Palazzo Madama, dal 14 dicembre scorso in poi. Cioè da quando sinistre e centristi con la partecipazione della nuova formazione finiana tentarono il primo e più pericoloso assalto parlamentare al Cavaliere. Un simile messaggio «rientra perfettamente nelle prerogative» del capo dello Stato, ha scritto ieri Scalfari. Che per fortuna non è più in età di insegnamento e non può quindi accreditare con tanto di diploma aspiranti golpisti. Quali sarebbero, almeno in dottrina, i sostenitori, come lui, del diritto, o addirittura del dovere, del presidente della Repubblica di incitare una parte della maggioranza a liberarsi di un governo osteggiato dall'opposizione. Il capo dello Stato certamente «può inviare messaggi alle Camere», come dice il secondo dei dodici commi dell'articolo 87 della Costituzione: quello sul quale evidentemente Scalfari si è concentrato dimenticando tutto il resto dell'impianto costituzionale. Che invece il buon Giorgio Napolitano, anche a costo di deludere il suo estimatore ed amico, ha ben presente e ricorda a tutti ogni volta che ne ha l'occasione, o ritiene di coglierla in pubbliche circostanze, per opporre ai fautori della crisi il suo obbligo di rispettare e tutelare istituzionalmente il governo in carica, sino a quando esso dispone della maggioranza e della fiducia parlamentari. È il caso appunto dell'attuale governo Berlusconi, per quanto questo possa non piacere a Scalfari e allo stesso presidente della Repubblica: quella vera, non di carta. Quella, per intenderci meglio, che nacque dal referendum popolare del 2 giugno 1946 e alla fine dell'anno successivo si diede tanto di Costituzione scritta. Nella quale, fra l'altro, con una lungimirante scelta modificata nel 1993 sotto la spinta emotiva di un equivoco e unidirezionale uragano giudiziario di cui molti si sono pentiti, senza avere però il coraggio di ammetterlo interamente e di porvi rimedio, fu vietato ai magistrati di indagare e processare i parlamentari senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza. Il capo dello Stato, per quanto Scalfari mostri di non avere sentito, letto e compreso, non si è tuttavia limitato negli ultimi tempi a ricordare il suo obbligo costituzionale di tutelare un governo provvisto della maggioranza e della fiducia del Parlamento. Egli ha anche detto che, in assenza di una crisi, per la quale occorrono quanto meno le dimissioni spontanee del presidente del Consiglio, oggi notoriamente deciso a non darle, si sente preclusa anche la semplice «idea» di un governo diverso. Figuriamoci se può quindi inviare alle Camere un messaggio, come vorrebbe Scalfari, per «stimolarle» ad «uscire dall'apatia e dall'afasia» che le avrebbe sinora trattenute dalla sfiducia e dalla crisi. Qui siamo veramente alle vertigini istituzionali, che fanno cadere il buon senso, e il buon gusto, come le foglie dagli alberi in autunno. Che è poi alle porte. Peccato che Scalfari abbia scoperto così tardi e così a sproposito l'istituto del messaggio presidenziale alle Camere. Così tardi perché ricordo ancora il suo malumore, per non dire di più, gridato vent'anni fa, quando il povero Francesco Cossiga si rivolse dal Quirinale al Parlamento, appunto con un messaggio, per sollecitare non una crisi di governo, pur essendone anche allora in carica uno di non solida salute politica, l'ultimo presieduto da Giulio Andreotti, ma una profonda e salutare riforma costituzionale. Mancata la quale, si è visto come sia finita la cosiddetta prima Repubblica, tra esondazioni giudiziarie, frantumazioni politiche e conflitti istituzionali. Così a sproposito, tornando all'interesse improvvisamente scoperto da Scalfari per i messaggi presidenziali alle Camere, perché un intervento del capo dello Stato contro il governo e a favore della crisi in questo momento, oltre a violare la Costituzione, equivarrebbe ad un incendio politico e sociale. Ad appiccare il quale non può certamente essere invitato il capo dei pompieri, quale sinora è stato il presidente della Repubblica. E gli auguro di continuare ad essere nei circa venti mesi residui del suo mandato, come di questa sfortunata legislatura. Che non merita di finire nella e con la spazzatura delle intercettazioni telefoniche eseguite sopra, sotto e accanto alle lenzuola di un pur troppo «incastrato» e «giocoso» presidente del Consiglio, come lo definisce con affettuosa severità il suo aedo Giuliano Ferrara.