1994-2011, è la solita recita contro il Cavaliere
Questo incipiente autunno politico assomiglia troppo a quello del 1994. Sono passati da allora 17 anni, ma le cose non sono cambiate. La politica continua ad essere debole. La politica continua a essere debole e a lasciarsi dettare l'agenda dai magistrati, nella indifferenza inquietante di troppa gente, purtroppo anche ai piani alti delle istituzioni. Dove oso ancora sperare che si aprano gli occhi e si prenda qualche iniziativa in tempo per evitare proprio alle istituzioni il collasso finale, come se non bastasse il rischio, anch'esso incombente, di quello economico e finanziario. Ai magistrati di Milano, che non hanno mai mollato l'osso costituito da Silvio Berlusconi, di cui si è perso anche il conto dei processi di rito ambrosiano ai quali è sottoposto, si sono aggiunti ora quelli di Napoli. Dalle cui attività molti avversari del Cavaliere sperano di vederlo finalmente travolto, non essendo riusciti a sfiduciarlo in Parlamento dopo il passaggio del presidente della Camera Gianfranco Fini all'opposizione. Che di per sé la dice già lunga sull'anomalia del sistema politico e istituzionale dell'Italia. Come adesso, anche nel 1994 i rapporti politici fra il presidente del Consiglio con Umberto Bossi e la Lega sono in sofferenza sul problema della riforma delle pensioni, con particolare riguardo questa volta a quelle anticipate di anzianità. La cui difesa, imposta appunto al governo dai leghisti, ci mette in coda all'Europa, compromette ulteriormente il diritto dei giovani di maturare un decente trattamento di quiescenza e pesa come una zavorra sul debito pubblico, anche se riuscissimo davvero ad anticipare al 2013 il pareggio di bilancio con l'ultima manovra finanziaria. Alla quale potrebbe seguirne un'altra, con la riapertura dello scabroso capitolo delle pensioni, se i conti dovessero tornare a zoppicare, come nessuno può onestamente escludere. Con un tempismo a dir poco sospetto, peraltro destinato ad essere contraddetto dalle risultanze processuali, la Procura di Milano fece seguire nel 1994 al rifiuto di Bossi di assecondare la riforma pensionistica in cantiere nel governo, osteggiata anche allora dalla sinistra parlamentare e di piazza, un clamoroso "mandato a comparire" contro il presidente del Consiglio. Al cui indebolimento mediatico seguì in poche settimane la crisi politica, sfociata nel cosiddetto ribaltone con la formazione del governo di Lamberto Dini. Che pure era il ministro del Tesoro ispiratore e motore della riforma delle pensioni, peraltro indicato dallo stesso Berlusconi, su sollecitazione dell'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, per un breve passaggio di decantazione verso elezioni anticipate. Esse però arrivarono dopo più di un anno: il tempo rivelatosi utile perché la sinistra si organizzasse con il simbolo e il nome dell'Ulivo attorno a Romano Prodi e vincesse la partita per governare nei cinque anni della nuova legislatura, sia pure con il rocambolesco avvicendarsi di tre presidenti del Consiglio -lo stesso Prodi, Massimo D'Alema e Giuliano Amato- e altrettante maggioranze. Quella fu anche la legislatura dell'esordio politico di Antonio Di Pietro, candidato al Senato dall'allora segretario del Pds-ex Pci D'Alema, in un collegio elettorale della Toscana fra i più rossi e blindati d'Italia, dopo una carriera giudiziaria di grandissimo clamore. Il cui ultimo atto era stato proprio nell'autunno del 1994 l'offerta al capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, di "sfasciare" Berlusconi nell'interrogatorio che lo attendeva come indagato per corruzione. Di Pietro tuttavia non sarebbe stato l'unico magistrato della Procura milanese a passare più o meno direttamente, o casualmente, alla politica nello schieramento di sinistra. Gli avrebbe poi fatto buona compagnia il suo ex vice capo e successore di Borrelli, oggi senatore del Pd, Gerardo D'Ambrosio. Vedremo se nei prossimi mesi o anni approderà in Parlamento, per altre diaboliche circostanze, anche qualcuno dei magistrati oggi mobilitati a Napoli per interrogare, con le buone o le cattive, spontaneamente o portato a forza dalle guardie, Berlusconi. Sempre lui, che in questo caso, a dire il vero, non è indagato, bensì parte lesa in una sospetta e vomitevole operazione di ricatto attribuita a Gianpaolo Tarantini e Valter Lavitola. Ma egli diffida -e come dargli torto?- di magistrati così stranamente decisi a proteggerlo dai suoi presunti estorsori da lasciarlo sputtanare con la trascrizione di telefonate intercettate sulle sue utenze mobili, anche nelle parti più chiaramente estranee al contenuto delle indagini. Tali sono, per esempio, le grevi parole attribuite al presidente del Consiglio sul conto della cancelliera tedesca, a meno che non si voglia sostenere che anche Angela Merkel abbia a che fare con Tarantini, Lavitola e affini. Si sente insomma lontano un miglio la puzza di altri obbiettivi, del resto anticipati dai soliti gazzettieri di certe Procure con l'ipotesi che Berlusconi da parte lesa diventi anche lui indagato e infine imputato di corruzione in atti giudiziari. Questa volta la speranza è di potergli attribuire il tentativo di fare nascondere sue presunte responsabilità, sotto e sopra le lenzuola delle sue residenze private, in altri procedimenti per puttane, tangenti e droga in cui Tarantini è imputato a Bari. Pier Ferdinando Casini, che di tutti gli oppositori vecchi e nuovi di Berlusconi è sicuramente il più avveduto e civile, ha definito "penose" le telefonate del Cavaliere intercettate per via giudiziaria e diffuse con il solito tempismo politico. Il giudizio può essere condiviso, non foss'altro per la confidenza che emerge da parte del presidente del Consiglio con persone dalle quali egli avrebbe dovuto tenersi alla larga. E non dico altro. Ma "penoso" è un aggettivo che Casini sbaglia ad applicare, come purtroppo ha fatto, anche alle modalità e all'uso che si è fatto e si sta facendo di quelle intercettazioni. Scandaloso, o indecente, è l'aggettivo giusto. E ad ogni livello: politico, mediatico, giudiziario e istituzionale.