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Pensioni modello cileno

Una donna sfoglia un modulo per la richiesta di pensione

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La crisi economica in atto ha la sua causa nel fatto che molti Paesi occidentali si sono altamente indebitati. Oltre al debito pubblico in senso stretto, vi è per giunta l'enorme esposizione legata al sistema previdenziale pubblico. Gli Stati hanno incassato per decenni i soldi dei lavoratori, ma invece che farli fruttare li hanno usati per pagare le pensioni di quanti avevano già lasciato il lavoro. In questo quadro desolante esistono pochissime eccezioni e una di esse è il Cile, dove nel 1981 - per iniziativa del ministro di allora, José Piñera - è stato costruito un sistema «a capitalizzazione» che ha sostituito il sistema detto «a ripartizione», introducendo conti di risparmio individuali detenuti dai lavoratori e la cui gestione è stata affidata a imprese private di investimento, cilene e no. Come spiega lo stesso Piñera in uno studio dell'Istituto Bruno Leoni («Verso un mondo di lavoratori-capitalisti. Perché e come riformare le pensioni in Italia»), quella riforma ha dato un contributo decisivo allo sviluppo impetuoso di questo Paese latino-americano. Da quando la previdenza è stata liberalizzata, i tassi di rendimento reali dei conti di risparmio pensionistico sono stati mediamente oltre il 10 per cento, ben al di sopra del tasso d'inflazione. I risparmi dei lavoratori cileni si sono accresciuti nel tempo perché sono stati investiti dai fondi di investimento, i quali hanno in tal modo finanziato l'economia. Il risultato è che per più di dieci anni il tasso di crescita dell'economia cilena è raddoppiato rispetto al livello precedente, raggiungendo un valore intorno al 7 per cento annuo. Secondo Piñera pure l'Italia trarrebbe grande beneficio da una riforma di questo tipo. D'altra parte il modello cileno sta iniziando a trovare accoglienza non solo in America Latina, ma anche nell'Europa centro-orientale e in quella occidentale. Significativo è il caso della Svezia, che a partire dal 2001 ha permesso ai propri cittadini di versare in un conto individuale 2,5 punti percentuali delle rispettive imposte sul salario a fini previdenziali. Una riforma pensionistica basata su depositi privati, direttamente controllati dal lavoratore, è quanto mai urgente per alcune ragioni fondamentali: per la questione demografica, legata alla riduzione dei tassi di fertilità e all'allungamento della durata della vita; per l'alto onere sul lavoro che i contributi previdenziali oggi rappresentano; per l'indebitamento dei sistemi di welfare, ormai insostenibile. Finora si è provato a ovviare a tutto ciò ritardando l'età della pensione e riducendo i vitalizi, ma si tratta di palliativi. Un debito previdenziale stimato intorno al 200% del Pil, come nel caso dell'Italia e della Francia, può essere affrontato solo con sempre più gravi penalizzazione dei lavoratori. Bisogna prendere atto che si è dinanzi al fallimento delle pensioni statali, che non saranno in grado di consentire una vita dignitosa agli anziani di domani. È allora necessario che, dopo essere passati a un sistema contributivo (in cui si riceve sulla base di ciò che si è dato), si privatizzi e liberalizzi davvero la previdenza, introducendo la libera scelta dove ora abbiamo il monopolio e l'imposizione. Per Piñera vi sono molte buone ragioni per privatizzare l'intero sistema previdenziale italiano. Sul piano etico, un sistema collettivistico toglie agli individui la libertà di organizzare la propria vita: e va quindi rifiutato. Per giunta, il tasso di rendimento di un sistema a capitalizzazione è destinato a essere ben superiore di un sistema previdenziale redistributivo e statizzato. Se si considera poi la questione dell'equità, bisogna ricordare che di norma i poveri iniziano a lavorare in età più giovane e hanno un'aspettativa di vita inferiore rispetto ai più abbienti. Per questa ragione il sistema attuale in molti casi è anche assai ingiusto. La crisi italiana in atto, che in buona parte è conseguente al peso che il debito pensionistico esercita sul mondo del lavoro, può essere l'occasione giusta per una presa di coscienza che, mettendo da parte antichi pregiudizi paternalistici, restituisca ai lavoratori il pieno controllo sulla ricchezza da loro prodotta.

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