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Bossi divide il ceto medio

Umberto Bossi

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Che hanno tutte risentito del ruolo sostanzialmente iugulatorio svolto sulla maggioranza dalla Lega, contraria a misure di contenimento strutturale della spesa pubblica. Mancando le quali, premuto dalla minaccia di una crisi di governo che avrebbe aggravato e aggraverebbe quella già pesante dell'economia, il presidente del Consiglio si è rassegnato a mettere le mani nelle tasche dei contribuenti. Dall'edizione finale della seconda manovra estiva, quella di agosto, emerge che si è ricchi quando si supera un reddito annuo di 300 mila euro lordi. Oltre questa soglia è stata infatti istituita una sovrattassa del 3 per cento. Che potrebbe essere paradossalmente considerata anche modesta rispetto al 5 per cento originariamente deciso a carico dei redditi superiori ai 90 mila euro, e ancora più modesta rispetto al 10 per cento sui redditi superiori ai 150 mila euro. Sotto i 300 mila euro l'anno, che già diventano quasi la metà con le detrazioni fiscali nazionali e locali in vigore, si deve quindi presumere che ci sia il famoso ceto medio. Cui tutti, a destra ma anche a sinistra, si mostrano attenti considerandolo anche il volano del sistema economico, in quanto capace di incidere maggiormente sui consumi, e quindi anche sullo sviluppo. Ma nella mappa che Berlusconi si è praticamente lasciato imporre dalla Lega questo ceto medio è stato diviso e sciaguratamente discriminato. Ve n'è uno da 90 mila euro di reddito annuo in su che si è buscata una sovrattassa e uno, della stessa dimensione reddituale, che n'è stato esentato. Quello che l'ha buscata è costituito dai dipendenti pubblici e dai pensionati, pubblici o privati che siano. Essi, già penalizzati peraltro con l'esclusione dei loro emolumenti dall'adeguamento periodico all'aumento del costo della vita, subiscono un prelievo speciale, di cosiddetta solidarietà sociale, che oltre i 150 mila euro porta l'aliquota finale dell'Irpef al 53 per cento, senza considerare le addizionali locali. Il ceto medio graziato, al quale la sovrattassa del 5 e del 10 per cento è stata messa e tolta nel giro di pochi giorni, è rappresentato dai dipendenti di aziende private e lavoratori autonomi. I pochi volenterosi che hanno accettato di spiegare questa diversità di trattamento hanno detto che ai dipendenti pubblici e ai pensionati si può ben chiedere di più considerando la "sicurezza" dei loro posti di lavoro o rendite di quiescenza. Ma ciò significa considerare precari, a quel livello di reddito, tutti indistintamente i lavoratori autonomi e dipendenti di aziende private, anche le più solide, vincolate da contratti che o non consentono licenziamenti o sono in qualche modo compensati da misure di protezione sociale. In realtà, non ci sono spiegazioni ragionevoli per questa storiaccia. Ci sono solo penosi tentativi di arrampicarsi sugli specchi della improvvisazione. O del cinismo, che permette di alzare la voce e la scure sui segmenti sociali considerati più facilmente aggredibili sul piano politico perché meno consistenti numericamente. Se poi sono quelli in cui si è fatto migliore uso delle risorse personali e si sono conquistati più meriti, pazienza. Anzi, peggio per loro. Ciò si può anche mettere nel conto se viene pensato, detto e fatto da una sinistra guidata da un Nichi Vendola, ormai destinato a soppiantare quello sprovveduto di Pier Luigi Bersani. Che dopo gli infortuni, chiamiamoli così, del suo ex braccio destro Filippo Penati cerca di recuperare credito e forza affiancandosi in piazza alla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso. Ma, pensato, detto e fatto da una coalizione politica dichiaratamente di centrodestra, di matrice cioè liberale, è un'assurdità. È un suicidio politico. Non meno suicida è la scelta di lasciare a Beppe Grillo o Antonio Di Pietro, o entrambi, il primato della lotta agli sprechi della politica: dal numero esorbitante dei parlamentari ai loro compensi e vitalizi, dallo stratosferico finanziamento pubblico dei partiti alla sopravvivenza delle province imposta dalla Lega, nella formale attesa di abolirle con una riforma della Costituzione improbabile in questo scorcio, ormai, di legislatura. Altrettanto suicida, infine, è la scelta di lasciare a Pier Ferdinando Casini e al suo più o meno fantomatico terzo polo l'esclusiva del contrasto all'insostenibile scandalo delle pensioni anticipate d'anzianità. Alle quali la Lega - ancora lei - ha impedito che si mettesse mano, pur sapendo che così si compromette, fra l'altro, il diritto dei giovani di trovare, quando e se verrà il loro turno, uno straccio di trattamento di quiescenza. Neppure il capitolo delle pensioni delle donne è sfuggito all'odioso gioco iugulatorio dei leghisti. Grazie ai quali anche le dipendenti di aziende private saranno obbligate, come quelle del settore pubblico, ad andare in pensione a 65 anni ma solo dal 2024, al termine di un "percorso" tanto lungo quanto indecente, visto il costo che esso comporta.

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