Berlino bombarda l'euro
Aveva visto giusto Il Tempo quando ieri è andato controcorrente rispetto all'euroretorica alla camomilla a cui si è abbeverata gran parte dell'informazione. E che è stata materia dominante della politica, non solo italiana. A 24 ore dalla conferenza stampa di Jean-Claude Trichet, il rappresentante tedesco nell'esecutivo della Banca centrale europea, Juergen Stark, si è dimesso in aperto contrasto con la decisione di continuare gli acquisti dei titoli dei paesi in difficoltà. Tra questi ci sono i Btp italiani, il cui spread è immediatamente tornato oltre quota 370. Quella che il presidente uscente della Bce aveva blandamente definito “una procedura standardizzata”, accompagnando il tutto con un “domani vedrete”, si è rivelato il vero terreno di scontro dell'Europa di queste ore. Quanto al vedere, stiamo infatti vedendo. E ciò che vediamo è un impalcatura europea che è ormai di fronte a un bivio: o frana su se stessa, oppure si spacca in due generando un euro di serie A ed uno di serie B. Noi rientreremmo ovviamente in questa seconda categoria. A meno che governanti armati di super-attributi non impegnino tutta la loro credibilità, autorevolezza e volontà politica per raddrizzare l'impalcatura stessa. Di questi premier o capi di Stato non riusciamo a scorgerne. Comunque, nulla sarà come prima per l'Europa; e forse non è una coincidenza che questo avvenga a dieci anni esatti da un altro “nulla sarà come prima”, quello dell'11 settembre. Allora gli Usa persero la loro innocenza e la loro sicurezza militare, strategica e infine politica. Oggi l'Europa è allo stesso modo nuda di fronte ai propri contrasti economici, che a loro volta sono anch'essi politici e strategici. Ciò che accade ai piani alti dell'Eurotower di Francoforte – dove tra due masi si installerà Mario Draghi, il quale come prima cosa dovrà recuperare il consenso dei tedeschi – è un riflesso di quello che da mesi cova nelle opinioni pubbliche e nelle élite dei paesi del Nord. I banchieri considerano un “azzardo morale” insostenibile e illegittimo soccorrere i titoli dei paesi a rischio, poiché ciò impegna in ultima analisi i fondi dei contribuenti. L'opinione pubblica la pensa, all'80 per cento, alla stessa maniera. Ed è abbastanza singolare che laggiù a trovarsi in sintonia con i cittadini siano gli uomini delle banche più che quelli della politica. Singolare ma non illogico. Un po' come i Tea Party americani, i contribuenti di Berlino e Monaco di Baviera considerano le variabili economiche non come sussidiarie alla vita quotidiana, una variabile o una trascurabile intendenza come avviene da noi: ma “la” vita quotidiana stessa. Si potrà dire, come abbiamo detto, che è anche una dimostrazione di egoismo o di scarsa memoria, per un paese che si chiama Germania. Ma non cambia la realtà. Il processo del resto è in atto nei paesi nordici dove la Finlandia ha preteso dalla Grecia garanzie dirette per ogni banconota prestata. Il premier olandese Mark Rutte ha appena scritto una lettera al Financial Times per chiedere l'istituzione di uno zar europeo per la disciplina fiscale, con il potere di imporre sanzioni, sospendere i finanziamenti comunitari e infine sbattere fuori i paesi non in regola. E persino nelle repubbliche comuniste, dove la Slovacchia – entrata nell'euro nel 2009 – ha deciso di prendersela molto comoda nell'approvazione parlamentare dei sussidi ai paesi a rischio. Non ci vuole Svetonio per capire che quando un movimento di opinione così imponente, e che ritiene di avere fondate ragioni, si mette in marcia, non c'è Angela Merkel che tenga. Il motivo per cui la cancelliera, pur guidando un paese con i fondamentali economici con i fiocchi, sta perdendo a raffica tutte le elezioni locali è esattamente questo. La sentenza della Corte costituzionale tedesca, interpretata superficialmente come un via libera agli aiuti alla Grecia di fronte al ricorso di un gruppo di politici ed economisti (ispirati dallo stesso presidente della repubblica federale, Christian Wulff) non dice affatto questo: impegna il governo a riferire ogni volta al Bundestag, costringendo la Merkel, o fornendole un alibi, a trattare da qui in avanti con un braccio legato dietro la schiena. Il risultato è paradossale. In Spagna e in Italia stiamo affannosamente rincorrendo i vincoli europei, aumentando le tasse, modificando le nostre carte costituzionali, sorbendoci prediche dall'interno e dall'estero un giorno dopo l'altro; ma mentre noi facciamo tutto questo il Nord Europa ci tiene sempre più alla larga, vuole disfarsi di una compagnia che ritiene non credibile né meritevole di sedere alla stessa tavola. Intendiamoci, rigore nella finanza e nella cosa pubblica non può che farci bene, comunque vadano le cose. Siamo in fondo il paese che appena proposta la legge per la soppressione delle province pensa subito di reintrodurle, anzi di moltiplicarle grazie al combinato disposto tra propaganda leghista e lobby degli enti locali a trazione di sinistra. Siamo inoltre il paese la cui opposizione è in gran parte ostaggio della Cgil e delle sue piazze riempite di pensionati, perché i precari non vanno in piazza e non sono neppure iscritti al sindacato. Ed infine siamo il paese nel quale, mentre grandina sull'Europa e sui nostri risparmi, considera priorità ed emergenza nazionale le intercettazioni telefoniche del Cavaliere, il quale a sua volta non riesce a tagliarsi la lingua neppure nei momenti cruciali. Ora sarà il caso di darci una svegliata e prendere atto dello scenario che si sta aprendo. Tra l'altro dal prossimo novembre al 2013 si voterà nei paesi principali dell'eurozona: Spagna, Francia, Germania, Italia. Qualunque campagna elettorale, chiunque vincerà, dovrà vedersela con l'idea della fine dell'euro, almeno come l'abbiamo conosciuto finora. Ad alcuni appare una conclusione logica, ad altri anche auspicabile, perfino per l'Italia. E' presto per fare i conti tra ciò che forse recupereremmo in competitività e ciò che perderemmo nella svalutazione secca dei nostri risparmi, finanziari e immobiliari. Certo, si vive anche senza l'euro. Ci abbiamo campato benissimo per tutti gli anni della ricostruzione, durante la prima e la seconda repubblica, fino al 2002. Allora, però, non dovevamo misurarci con le economie emergenti e con le potenze nel frattempo emerse, né con la ritirata americana. Ora non sarà una scampagnata.