Mino, l'uomo che sciolse la Dc

Mino Martinazzoli è morto ieri a 80 anni nella sua Brescia. Fondò il Ppi ma passerà alla storia soprattutto come il segretario che liquidò la Democrazia Cristiana. L'intenzione era lodevole, chiudere con un passato glorioso che ha impedito all'Italia di cadere sotto l'influenza comunista, ma che la vicenda di Tangentopoli rischiava di far affogare sotto la melma di scandali e tangenti. In tanti anni di lavoro parlamentare mai mi è capitato di vedere Martinazzoli sorridere, oppure alzare la voce. Questo non significa che non fosse fermo nelle sue idee. Capace di sopportare la messa in minoranza all'interno del partito con dignità, ma con la fermezza di chi non voleva accettare compromessi. Molte le analogie con un altro suo predecessore, Zaccagnini, tutti e due sinistra Dc. Tutti e due convinti, a volte ossessionati, della necessità di cambiare. Tutti e due alle prese con avvenimenti esterni grandiosi che fecero volare come un castello di carte progetti e propositi. Zac fece i conti con il periodo più drammatico dell'offensiva terroristica che ebbe il suo culmine con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Martinazzoli ha dovuto fare i conti con un partito lacerato e colpito da Tangentopoli, dagli scandali, dalla crisi del maggiore partito di opposizione. In fondo l'anticomunismo era stato per la Dc una facile via di fuga. Fu Cossiga ad avvertire che il crollo del comunismo avrebbe coinvolto anche chi a quel mondo si contrapponeva, in Italia la Democrazia Cristiana. Le parole di Cossiga sembravano stonate in un momento in cui si celebrava il trionfo sulla dittatura. Il Pci prevedendo la fine dell'impero sovietico aveva tentato la difficile strada del cambiamento. Nacque il Pds, ma con lacerazioni e scissioni. Nelle feste dell'amicizia di Arona e Pesaro, Forlani celebrava il trionfo. Ma era solo una illusione. La tempesta era dietro l'angolo. A sinistra a fatica qualche volenteroso pensava di unificare socialisti ed ex comunisti. Poi prepotentemente si affacciava sulla scena politica la Lega. Ricordo una sera di settembre del 1992 a Mantova. Era campagna elettorale. Bossi riempì la sua piazza. Martelli e D'Alema fecero sognare la sinistra con un comizio comune fatto di progetti, qualcuno ipotizzava perfino la ricomposizione della scissione di Livorno del 1921. La tempesta di Tangentopoli avrebbe fatto macerie anche di questo. In una sala, ignorata dai giornalisti, segnale della crisi, Forlani tenne il suo discorso davanti a poche centinaia di rassegnati. Lo raggiunse Martinazzoli reduce da alcuni comizi nel Cremonese. Ricordo alla fine la pacca sulle spalle del segretario in declino a Martinazzoli e l'annuncio: adesso tocca a te. Fu Il Tempo il solo ad annunciare che Martinazzoli sarebbe stato il nuovo segretario scudocrociato. L'ex ministro, l'uomo a cui erano state rimproverate alcune rigidità, ma sulla cui onestà c'era un consenso unanime, il 12 ottobre del 1992 fu eletto dal Consiglio Nazionale Dc segretario per acclamazione. Ma Mino capì che non poteva rimettere in sesto i pezzi di una casa che franava, per effetto degli scandali, per lacerazioni interne, per la difficoltà di trovare una collocazione, per l'assenza di un antagonista che servisse a rinserrare le fila. Minò tirò fuori le unghie. Chiese e ottenne pieni poteri per arrivare a gennaio del 1994 allo scioglimento del partito e la nascita del Partito Popolare. Riferimenti espliciti a Don Sturzo anche se il padre della Dc pensava più ad alleanze a destra che a sinistra. Così Martinazzoli non capì che ruolo avrebbe avuto Berlusconi e la sua nuova formazione politica. Lo sottovalutò e gli fu fatale. Rivendicò la centralità del Ppi trovando qualche amico, come Segni, ma con poco peso elettorale. La centraltà non fu premiata. Molti voti ex Dc andarono a FI e alla destra. Non solo, ma alcuni leader del partito si staccarono: Casini e Mastella scelsero il Cavaliere. E il Ppi raccolse alle elezioni del '94 meno di un terzo dei voti della vecchia Dc. Un disastro a cui seguirono ulteriori lacerazioni interne con il braccio di ferro tra Bianco e Buttiglione. Tra chi voleva schierare il partito a sinistra o a destra. Ma Martinazzoli ormai era marginale, il partito spaccato e lui relegato a concorrere per la carica di sindaco della sua città, Brescia. Scelse il centrosinistra. Poi il silenzio. O meglio sporadiche apparizioni, oppure la sponsorizzazione dello scioglimento di un Ppi ormai ridotto al lumicino nella Margherita. Un fallimento politico che lo stesso Martinazzoli spiegò così: «Non fummo tempestivi nel considerare che la fine del comunismo in Europa chiudeva in Italia, una fase storica, quella della Dc condannata a governare». E ancora dice Martinazzoli: «Pensavo che se ci avessero assistito generosità e coraggio, avremmo potuto essere di più noi stessi. Ma non fummo capaci di convincere gli italiani che le nostre ragioni erano più forti dei nostri torti». Martinazzoli è morto a 80 anni, era nato il 30 novembre del 1931. Nella politica ha fatto di tutto, deputato, presidente dei deputati, più volte ministro, segretario di partito, sindaco della sua città. Resta però un uomo della Prima Repubblica, la faccia nobile di quel periodo in cui moralità, valori e princìpi si identificavano in alcuni uomini. Martinazzoli era uno di loro.