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segue dalla prima di MARLOWE (...) ipotizza anche un'operazione limitata a tre mesi, e così chiudere la partita con Bruxelles e la Banca centrale europea.

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Ilpremier è di nuovo in rotta con il ministro, fa trapelare lo scontento con confidenze fuori onda, pare abbia definito quelle di Tremonti «misure da socialismo reale». Il titolare di via Venti Settembre, dopo l'eclissi culminata nel telefono fuori campo a Lorenzago di Cadore, si sente di nuovo in sella. Chi ha ragione, chi ha torto? Il verdetto, ben prima che noi, lo stanno dando i mercati e la Bce. Venerdì lo spread tra Btp e Bund tedeschi è schizzato di nuovo a 331 punti, il livello raggiunto a metà luglio e poi, ancora più drammaticamente, all'inizio di agosto, prima che la Banca centrale intervenisse a soccorso dei nostri titoli sul mercato secondario. Ora quel paracadute si sta riducendo, e notoriamente se un paracadute si chiude chi vi è appeso viene giù. Sbaglia il Cavaliere a definire staliniste norme anti-evasione che sono da decenni ben presenti ai paesi più liberali e civili, Stati Uniti in testa. L'Italia, poi, con un sommerso pari ad un quinto del Pil – quindi di oltre 300 miliardi di euro – sta messa assai peggio di tutti i partner occidentali. Infine, pur con tutta l'antipatia dei contribuenti pizzicati o più o meno tartassati, non c'è dubbio che Agenzia delle Entrate, Inps ed Equitalia abbiano ottenuto con il centrodestra risultati che nessun esecutivo di sinistra può vantare: 53,4 miliardi recuperati in tre anni (e nel 2011 il trend sarà confermato) sono fatti, non chiacchiere. I nuovi strumenti che si vogliono affidare ad Attilio Befera, capo dell'Agenzia delle Entrate, non hanno nulla di socialista. Incrociare i redditi dichiarati con il patrimonio posseduto o i beni acquistati è l'unica via per portare a galla il sommerso. Stanare le società di comodo, cui sono spesso intestate ville e yacht di chi magari figura come nullatenente e ha diritto allo sconto sugli asili, è un fatto etico oltre che pratico. Stessa cosa per le società individuali che servono per eludere o evadere, pratica diffusissima. Befera si è rivelato un manager duro ma capace, non ha mai usato la guerra all'evasione in chiave politica o di redistribuzione, che era la vecchia accusa mossa a Vincenzo Visco. Quindi occorre fidarsi. Ma Tremonti ha torto, e Berlusconi ha ragione, nell'intestardirsi ad usare questa voce della manovra come posta da inserire nel consuntivo che tra pochissimi giorni dovrà essere inviato a Bruxelles e Francoforte. Loro vogliono cifre certe, e le norme antievasione non lo sono. L'Iva, al contrario, sì. I conti sono presto fatti. L'Iva ha fornito nel 2010 116,3 miliardi di gettito. Dalle tabelle sulle «tax expenditures» (agevolazioni fiscali) appena redatte dal Tesoro risulta che l'Iva agevolata al 10 per cento produce un gettito di 23,2 miliardi. Quella al 4 per cento un gettito di 3,5 miliardi. Il grosso dell'Iva – 89,6 miliardi – viene dunque dall'aliquota ordinaria del 20 per cento. Portandola al 21 per cento si otterrebbero 4,5 miliardi di gettito in più. Incassi certi, blindati e strutturali. Escludendo dall'aumento le tariffe pubbliche – acqua, luce e gas – e limitandola ai soli beni di consumo i miliardi certi sarebbero quattro. Con due punti di aumento si otterrebbe ovviamente il doppio. «Cifrare» questa voce avrebbe valore riconosciuto dall'Europa, esattamente come il 12 agosto ha avuto valore il contributo di solidarietà fortunatamente abolito. Bruxelles, ripetiamo, non guarda per il sottile su equità e consenso interno. Vuole solo numeri sicuri. Questo non significa che le misure per la guerra all'evasione siano da buttare a mare, riscrivendo per la quarta volta manovra. Si tratta di agire sia sull'Iva sia sul contrasto all'evasione, ma invertendo le priorità. Con la prima si blinda la manovra europea; con la seconda si ottengono le risorse da destinare successivamente alla riduzione delle imposte su cittadini e imprese. Meglio – come sul Corriere della Sera suggerisce Roger Abravanel, economista e manager che da anni si occupa di meritocrazia – sarebbe aggiungere due altre mosse. La prima: completare la riforma delle pensioni, innalzando l'età anagrafica a 65 anni indipendentemente dai contributi, oppure passando al metodo contributivo pro-rata per tutti (misura indolore che mantiene i diritti acquisiti, e poiché chi gode del sistema retributivo ha solo pochi anni di lavoro davanti a sé, presumibilmente i meglio pagati, può perfino risultare vantaggiosa), o infine parificando da subito l'età di pensionamento delle donne nel settore privato, com'è già stato fatto nel pubblico impiego. La seconda: dismettere e privatizzare le quote non strategiche dei grandi enti pubblici – l'Eni si può controllare anche senza il 30 per cento – e la miriade di aziende comunali. L'incasso va ad abbattere il debito dello Stato e degli enti locali: per quest'ultimo non dimentichiamo che si pagano fior di addizionali, con Roma che detiene il record nazionale. Con le risorse aggiuntive si può ottenere più concorrenza, più lavoro, finanziare quella crescita che tuttora latita dalla manovra tremontiana. E sarebbe perfettamente in linea con quanto richiesto dalla Bce per continuare a soccorrere i nostri titoli pubblici. Tremonti non è d'accordo? Il premier si imponga sul suo ministro. E soprattutto il Cavaliere si ricordi di come, dal '94 a non molto tempo fa, è riuscito nonostante tutto ad alimentare la speranza di uno Stato liberale e moderno, rompendo la cristalleria polverosa delle corporazioni e dei consociativismi. Se non lo fa, mentre staremo a disquisire sulle festività da accorpare e gli enti da salvare, entro settembre i nostri Btp coleranno a picco. E allora non avrà più senso domandarsi se avrà vinto Berlusconi o Tremonti.

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