Prima di tutto viene l’Italia

Quando Giorgio Napolitano fu eletto Presidente della Repubblica nel 2006 il Parlamento era diviso. Il centrodestra votò scheda bianca, la sua elezione aveva spaccato le forze politiche. Era più una questione di metodo che di nome, ma il fatto politico, la distanza tra i poli, era un dato ineludibile e preoccupante. Cinque anni dopo, l’undicesimo capo dello Stato della Storia Repubblicana, si è dimostrato un eccezionale interprete del suo ruolo. Viviamo tempi difficilissimi e senza una guida così ferma, ricca di cultura politica, equilibrio, senso dello Stato, rispetto della Carta Costituzionale e consapevolezza del mondo vivo e reale della politica, l’Italia avrebbe vissuto certamente momenti peggiori. Lo scrivo ben sapendo che non tutti nel centrodestra la pensano così. Alcuni rimproverano al Capo dello Stato la sua lunga storia nel Pci, le sue simpatie per il progressismo. Eppure, cari critici a una dimensione, proprio questa militanza orgogliosa, questa sua esperienza da «migliorista», sempre minoranza del partito e nel partito, questa robusta e inflessibile idea che il consenso non sia della tecnocrazia ma della democrazia dei partiti ci ha regalato un presidente della Repubblica che non si presta a ribaltoni, un servitore delle istituzioni che non vuole tradimenti della volontà popolare, un uomo che si fa guidare dalla bussola della stabilità. Napolitano è il magnete che tiene il Parlamento incollato alla realtà, l’infaticabile tessitore di una tela fatta di responsabilità. Sono certo che Berlusconi ha imparato ad apprezzarne l’azione politica, spero che il centrosinistra e il Pd in particolare ne imparino la lezione che sarà anche l’eredità del suo settennato al Quirinale: prima di tutto, viene l’Italia.