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Bentornati a Tangentopoli

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Non so se meritano più una risata o una protesta lo stupore, l'imbarazzo e l'indignazione che mostrano i vertici e i sottovertici del Pd di fronte alle cronache giudiziarie di Monza. Che, al di là di quelli che saranno gli esiti processuali delle indagini, hanno già devastato l'immagine di Filippo Penati: l'ex sindaco rosso di Sesto San Giovanni, la cosiddetta Stalingrado italiana, ex presidente della provincia di Milano, ex vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia ed ex braccio destro del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Il presidente del «tribunale» interno del partito, l'ex ministro Luigi Berlinguer, cugino della buonanima di Enrico, sembra morire dalla voglia di espellerlo, pur dovendolo ancora giudicare come un autosospeso. Lo statuto del Pd, in verità, non glielo permetterebbe. E lui se n'è doluto in una intervista perché il reato di corruzione, contestato a Penati dal giudice delle indagini preliminari, non è considerato sufficiente per una misura del genere. E non lo sarebbe neppure il reato più grave di concussione, che la Procura monzese ha riproposto nella istanza superiore, confidando ancora di fare scattare ai polsi dell'indagato le manette, o di costringerlo agli arresti domiciliari. Come fare allora, nel Pd, per cacciare Penati e soddisfare tanta, improvvisa ansia di pulizia e di rigore? O tanto desiderio di vendicarsi di una presunta fiducia tradita? Semplice: si modifica di corsa lo statuto, e magari si applica il nuovo testo con effetto retroattivo. Ma di che cosa si stupiscono, o fingono di stupirsi e indignarsi, nei piani alti e bassi del maggiore partito di opposizione di fronte a questo ritorno rosso a Tangentopoli, se mai vi è stata una interruzione della vecchia pratica di finanziamento illegale della politica anche a sinistra? Già nel biennio 1992-93, quando esplose a Milano il bubbone appunto di Tangentopoli con l'arresto del socialista Mario Chiesa in flagranza di reato e le indagini chiamate «Mani pulite», i comunisti del Pds-ex Pci vi rimasero coinvolti. E in pieno. L'ineffabile segretario nazionale del partito, Achille Occhetto, già scampato con destrezza al crollo del muro di Berlino, pensò di cavarsela chiedendo scusa agli iscritti, ma attribuendone la responsabilità politica per intero alla componente migliorista, cioè riformista e moderata. Che guidava il partito a Milano e si era evidentemente lasciata infettare, secondo lui, nella pratica delle tangenti dagli odiati socialisti. Ai cui dirigenti locali la federazione ambrosiana del Pci poi Pds soleva rivolgersi per aiuti, ottenendoli, ogni volta che c'erano problemi di cassa da risolvere per mandare avanti la costosa macchina organizzativa. Se i problemi politici del coinvolgimento comunista in Tangentopoli furono liquidati da Occhetto in quel modo, alla soluzione sostanzialmente indolore dei problemi giudiziari, con riflessi anche nazionali, provvidero i competenti uffici di tribunale. Dove solo per una sfortunata coincidenza, per carità, se no si rischiano denunce, lavoravano alacremente magistrati destinati a fare carriera politica a sinistra, pur avendo a volte cultura e formazione che definire di destra sarebbe offensivo per la Destra, con la maiuscola. Con questi precedenti alle spalle non è patetico soltanto lo stupore mostrato di fronte alla vicenda giudiziaria di Penati dai suoi ex compagni comunisti. È patetico anche il solito furore con il quale la ex o post-democristiana Rosy Bindi, che Bersani prima o dopo si deciderà a rimproverarsi anche pubblicamente di avere insediato alla presidenza del suo partito, è tornata in questi giorni a diffidare dal confondere con la storia del Pd quella degli ex o post-comunisti, per quanto costoro costituiscano di questa formazione politica, e del suo elettorato, più dei due terzi. E rappresentino forse, pur con tutti i loro errori, i loro vuoti di memoria e la loro supponenza, la parte più razionale e, tutto sommato, affidabile del partito: quella da cui proviene non a caso Giorgio Napolitano.

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