Serve un premier di "ferro"
Non sappiamo se quando, nel 1981, licenziò 11.345 controllori di volo che paralizzavano gli Stati Uniti, Ronald Reagan si pose il problema di che cosa avrebbero detto non solo i sindacati, ma la Corte suprema, che era per giunta ancora quella nominata da Jimmy Carter. Né se gli stessi dubbi tormentarono Margaret Thatcher quando nell’84 resistette al picchettaggio dei minatori inglesi (o anche quando tolse concessioni e privilegi ai rampolli dell’aristocrazia con i quali lei, conservatrice del popolo, era notoriamente in urto). Di certo entrambi vinsero, segnarono un’epoca e passarono alla storia.Le vicende di queste ore della manovra finanziaria ci insegnano che un premier italiano può al massimo aspirare di passare alla cronaca. Gli emendamenti usciti dal summit di Arcore vengono già emendati da chi li ha partoriti. Figuriamoci l’opposizione, i sindacati, le magistrature di ogni ordine e grado, le infinite corporazione del Paese. Siamo al punto che i decreti di finanza pubblica si potrebbero titolare come i sequel di Guerre Stellari: Manovra; Manovra due, il Ritorno; Manovra tre, la Vendetta. E visto che – come non fa che puntualizzare la Banca d’Italia – ciò che conta non siamo tanto noi italiani quanto i mercati, auguriamoci che non si assista a qualcosa tipo L’Impero colpisce ancora. Tornando sulla terra, era abbastanza evidente che la soppressione tout court del riscatto del servizio militare o della laurea non avrebbe retto alle minacce di incostituzionalità. Se solo Silvio Berlusconi avesse imposto all’alleato leghista il completamento della riforma delle pensioni (per esempio con l’estensione a tutti del metodo contributivo pro-rata, con la parità di pensionamento tra uomini e donne nel settore privato, come già in quello pubblico) avrebbe colto tre obiettivi in uno: risparmi significativi, una riforma strutturale e far vedere chi governa. Ma il Carroccio, che pure nel 2001-2006 fece approvare lo scalone Maroni, si è fatto paladino di pensionati ed enti locali, proponendosi come nuova Cgil e nuovo Pd. Ed il Cavaliere si adegua. Ancora più disastroso è lo stato dell’opposizione e dei vari poteri del Paese. La prima, lasciando il volante in mano al sindacato, per natura difensore dei propri interessi, ha rinunciato ad ogni velleità riformatrice. Si torna in piazza, che bellezza. I secondi, specialisti in buoni consigli nei convegni, hanno dato abbondante spettacolo di sé in questi giorni. Organizzazioni imprenditoriali una contro l’altra: la Confindustria vuole l’aumento dell’Iva e la liberalizzazione di orari e professioni. Per la Confcommercio non se ne parla proprio. Poi si sono armati gli ordini professionali: sono ben 27, si va dagli assistenti sociali agli attuari (874 iscritti), dai giornalisti alle ostetriche, dagli avvocati agli spedizionieri fino ai notai. Rappresentano 2,1 milioni di persone e relativi congiunti, e ognuno si considera irrinunciabile. Quindi sindaci, minisindaci, assessori, consiglieri, presidenti di provincia e di regione. I tagli, naturalmente, li costringeranno a chiudere asili e spegnere lampioni. Non, magari, a ridurre consulenze o commissioni. I magistrati hanno scoperto che l’abolizione del famigerato contributo di solidarietà sui super-redditi lascia intatto quello sulla dirigenza pubblica. È vero, ma se è per questo ci sono anche le cosiddette pensioni d’oro, che non si fila nessuno. E poi: non è proprio la Corte dei conti a fare continue prediche sul rigore? Sempre nella stessa area, è di queste ore anche la protesta del Cnel. Questo formidabile ente ha 121 consiglieri, ventuno più dei senatori americani. Se andate sul suo sito, alla voce Eventi, potete leggere: «Nessun evento in programma». Il governo ha proposto un taglio di 50 membri. Ma ecco che Confindustria, banche, coop, assicurazioni, commercianti, artigiani, Cgil, Cisl e Uil hanno tutti assieme «messo nero su bianco» una ferma richiesta al presidente del Consiglio, al ministro dell’Economia, ai presidenti di Camera, Senato, delle «commissioni competenti» e di tutti i gruppi parlamentari: un immane sforzo di tempo e di carta per perorare «il rispetto dell’attuale rapporto tra le categorie». E a proposito di coop: tra le norme in bilico ci sono anche i tagli alle generose agevolazioni di cui esse hanno finora goduto, passando indenni dalla prima alla seconda repubblica, dai governi di sinistra a quelli di destra e viceversa. Da sempre le cooperative rosse (ma ci sono anche quelle bianche) rivendicano la «finalità mutualistica». La coop sei tu, come nel ricco spot con Woody Allen. Eppure non ci vuole certo il caso di Sesto San Giovanni per capire che le coop hanno terminali miliardari nel mondo delle costruzioni e della grande distribuzione, dove spesso agiscono in regime esclusivo alla faccia della concorrenza. La coop sono loro, e basta. Domanda: e questa sarebbe una classe dirigente? O piuttosto un pollaio di interessi, dove se le galline si coalizzano sono in grado di far fuori qualsiasi volpe? Certo, le lobby esistono in tutto il mondo, a cominciare dagli Usa che le hanno brevettate. Ma lì alla lunga generano fenomeni popolari di rigetto, come i Tea Party. O presidenti in grado di tenerle a bada, come Roosevelt, Eisenhower, Reagan, anche Bill Clinton: quelli più amati e più forti. Ecco: se governo e partiti non fanno una grande figura, l’Italia delle associazioni e dei sindacati non ne fa una migliore. La politica potrebbe dare una formidabile lezione: il Cavaliere ha annunciato una riforma costituzionale per eliminare le province e dimezzare i parlamentari. Tutti hanno ridacchiato. Siccome destra, sinistra e centro hanno detto di condividere questo obiettivo, si mettano al lavoro e in sei mesi approvino con la doppia lettura la nuova legge. Siamo sicuri che i cittadini trangugerebbero qualsiasi manovra.