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Tremonti e i mostri

Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti

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Lo scorso anno era arrivato a Rimini a metà settimana preceduto da voci su una sua possibile rinuncia dell'ultimo minuto. Nel 2010 Giulio Tremonti poteva permettersi anche questo. Lasciarsi desiderare, minacciare il forfait e poi presentarsi per raccogliere l'applauso di quello che ha ormai ribattezzato il «suo popolo» (chissà cosa ne pensano le 800mila persone che quest'anno hanno visitato il Meeting di Comunione e liberazione?). Nel 2010 il ministro dell'Economia era l'uomo forte. Reduce da un vertice con la Lega, si presentò davanti alla platea della kermesse riminese con un ambizioso programma in otto punti: era la «svolta» del governo, i passi da compiere per rilanciare il Paese e arrivare alla fine della legislatura. Nel 2010 Tremonti si tolse la giacca, si arrotolò le maniche della camicia, si alzò dal tavolo e parlò in piedi, dal leggio. Portò il saluto del premier Silvio Berlusconi e consigliò la lettura degli scritti sull'austerity di Enrico Berlinguer. Sembrano elementi secondari, quasi marginali. Eppure basta vedere il ministro «versione 2011» per capire che non è così. Un anno fa il titolare dell'Economia era «l'uomo forte» del governo, l'unico in grado di mediare tra il premier e l'alleato leghista. Adesso, al contrario, «l'uomo forte» è il segretario del Pdl Angelino Alfano. È lui che ha portato a casa l'accordo con Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Che ha ascoltato le rimostranze dei «frondisti» del partito e degli enti locali. E anche se ufficialmente tutti restano in attesa dell'incontro di lunedì tra Berlusconi e Umberto Bossi, l'impressione è che la riunione di Arcore sia poco più di una rimpatriata nostalgica tra due leader giunti al capolinea della loro stagione politica. A ben vedere anche Tremonti non sembra più molto in ascesa. A Rimini si limita ad esporre un intervento infarcito di citazioni che somiglia più ad una lezione di economia che ad una risposta ai tanti che continuano a criticare la manovra. Sembra quasi che non sia lui il numero uno di via XX Settembre. Parla seduto al tavolo e senza togliersi la giacca. Filtra la voce che Giulio, in «colloqui riservati» a margine del suo intervento, si sarebbe sfogato descrivendosi «deluso e sconfortato dal dibattito interno alla maggioranza sulla manovra». Il suo portavoce smentisce: «Ha parlato solo di Europa. Non ha avuto "colloqui riservati" e non ha parlato assolutamente di manovra». Ma la smentita sembra un po' debole, sia perché la faccia del ministro appare un po' «delusa e sconfortata», sia perché il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, in «visita privata» al Meeting, racconta di aver parlato con Tremonti dell'articolo 8 e di aver trovato il titolare dell'Economia «abbastanza aperto» (altrettanto non si può dire del ministro del Welfare Maurizio Sacconi che ha già fatto sapere che l'articolo 8 non si tocca). Certo è curioso che il Meeting, per una beffarda casualità, si sia trovato ad ospitare nello stesso giorno i due personaggi forse più «deboli» del dibattito politico. Entrambi fortemente imbarazzati da inchieste giudiziarie che colpiscono i loro collaboratori, entrambi commissariati da «giovani» leve. Se infatti Alfano fa breccia nel cuore del Carroccio, non si può fare a meno di notare l'ascesa silenziosa, all'interno del Pd, di Enrico Letta. Il vicesegretario democratico, sempre più sponsorizzato dal Quirinale, è ormai il «ponte» tra il maggioranza e opposizione. Tornando a Tremonti e al suo discorso, si può dire che il ministro abbia «sfogato» sulla Germania, ciò che forse avrebbe voluto dire alla sua maggioranza. Al centro del suo pensiero gli Eurobond. Il ministro parte da una metafora a lui cara: quella del videogame. Ricorda, a chi lo accusa di eccessivo ottimismo nel valutare la crisi (Napolitano?), che già nel 2008 aveva avvertito sul rischio che, dopo aver ucciso il «mostro», ne arrivasse ben presto un altro. Punta il dito sui tanti errori commessi nell'affrontare la difficile situazione economica. «Molti - spiega - hanno pensato fosse un ciclo». E come tale lo hanno affrontato. Così, oggi, ci si trova davanti ad una crisi che «ha una dimensione finora non nota» e che, ed ecco tornare la metafora del videogame, «non è ancora al game over». Che fare? Per Tremonti non ci sono dubbi: l'unica via d'uscita sono gli Eurobond. Gli stessi che Germania e Francia non vogliono. Ma a finire nel mirino del ministro sono soprattutto i tedeschi. «L'idea che l'Eurobond conviene a Italia e Spagna e non alla Germania - avverte - è un'idea sbagliata». Cita il Doctor Faustus di Thomas Mann che replicò la storia di chi «scambia la propria anima per la musica perfetta». «Ecco - sottolinea - non vorremmo che il tedesco perfetto scambi la propria anima con l'export perfetto». Quindi elenca un po' di dati: «L'export della Germania verso la Cina è stato di 53,5 miliardi nel 2010. Quello verso i cosiddetti paesi "pigs" (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna ndr) 50,9 miliardi, quasi quanto la Cina. Quello verso l'Italia 58,4 miliardi, più di quello verso la Cina. Allora dico: volete buttare via tutto questo o pensate abbia valore anche questo? Quello che adesso ti può sembrare un beneficio tra poco si può tradurre in un maleficio. Io dico se si va avanti su un crinale pericoloso forse bisogna cambiare musica». La ricetta è chiara: «Un tempo lo sviluppo dell'Europa si fondava sull'automobile. Oggi non è più così. Occorre trovare un altro driver di sviluppo e l'unico modo per investire nel nostro futuro sono gli eurobond». Che per inciso sono una proposta socialista (vennero lanciati da Jacques Delors) rilanciata dalla presidenza italiana della Ue nel 2003 (presidente Silvio Berlusconi, ministro dell'Economia Tremonti). Le ultime parole sono per il «suo» popolo. Prima una citazione di don Luigi Giussani («Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell'uomo»), poi il pranzo alla mensa del Meeting. Come sembrano lontani i tempi in cui Giulio, dopo aver minacciato di non venire, faceva il suo intervento, saliva in macchina, e fuggiva via.

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