Il Pd spera anche in Gheddafi per attaccare Berlusconi
Alla fine della sua avventura politica, mentre la sua testa rotolava a Tripoli dalla statua assaltata, in mancanza del suo corpo, dagli insorti penetrati in quella che era la sua fortezza, Gheddafi ha trovato o ritrovato in Italia, come preferite, sostenitori a sinistra. Dove, giusto per non farsi scappare l'occasione di prendersela con l'odiato presidente del Consiglio, in carica a dispetto di tutte le loro campagne che si possono ben definire di odio, si è cominciato a fantasticare del terrore del nostro governo di vedere veramente finire davanti alla Corte Internazionale dell'Aja il despota libico. Il quale potrebbe difendersi nel processo facendo clamorose rivelazioni sui rapporti di amicizia e di cooperazione avuti con il Cavaliere prima della rivolta popolare, delle sanzioni dell'Onu e degli attacchi aerei della Nato. Rapporti che pure, al netto della solita gestualità espansiva di Silvio Berlusconi, a cominciare da quel baciamano che ha fatto più volte il giro fotografico e televisivo del mondo, sono stati gli stessi o il logico sviluppo di quelli intrattenuti con Gheddafi, non con un suo sosia, dai predecessori di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Fra i quali ce ne sono di ben noti e ancora graditi, anzi graditissimi, a sinistra: per esempio, Massimo D'Alema e Romano Prodi. Un contributo a questi strani soccorsi più o meno processuali e storici a Gheddafi, sia pure con spirito forse meno animoso nei riguardi del Cavaliere, è venuto ieri dal «Corriere della Sera» con un editoriale dell'ex ambasciatore Sergio Romano. Che, evocando i processi internazionali che durante la seconda guerra mondiale si immaginavano a Londra contro Benito Mussolini, si è chiesto «quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all'Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico». Il fatto è che, per quanto abbia potuto mostrare anche lui incertezze o ritardi, essendo un uomo e non il superman immaginato con affetto dai suoi nipotini e dipinto con livore dagli avversari, Berlusconi la sua parte politica e militare l'ha fatta per chiudere la partita di Gheddafi in Libia, quando si è deciso di giocarla a livello internazionale. Che era l'unico possibile e realistico. Egli ha adoperato le sue carte su un terreno reso peraltro più complicato da circostanze estranee alla sua volontà e capacità di controllo, come i rapporti fra gli altri Paesi interessati al conflitto, l'aggravamento della crisi economica e finanziaria internazionale, il tentativo infine della Lega di usarne gli effetti per chiedere, anzi tentare d'imporre alla maggioranza e al governo il ridimensionamento, se non l'interruzione dei costosi impegni militari all'estero. Ciò per non parlare delle contraddizioni di un'opposizione di sinistra pacifista o guerrafondaia secondo le convenienze esterne e interne, mutevoli e a volte capricciose come tutte le convenienze. Vale anche per la vicenda libica ciò che il presidente della Repubblica, a proposito della crisi economica e finanziaria internazionale che ha investito pure l'Italia, ha detto e chiesto alle opposizioni, particolarmente a quella che proviene da quello che fu anche il suo partito, nel recente e giustamente apprezzato intervento al Meeting di Comunione e Liberazione, a Rimini. «Possibile – ha chiesto testualmente il capo dello Stato – che da parte delle forze di opposizione ogni criticità della condizione attuale del Paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge?». Purtroppo sì. È stato ed è tuttora possibile perché anche dopo questo intervento, e monito, di un presidente della Repubblica certamente non sospettabile di partigianeria berlusconiana il principale partito d'opposizione, il Pd, ha continuato con i suoi dirigenti a muoversi e a parlare in una chiave di pregiudiziale contestazione del governo e delle sue iniziative rincorrendo il massimalismo della Cgil. Il cui segretario, peraltro, non ha avuto il minimo riguardo per questa opposizione pur così supina perché ha proclamato per il 6 settembre uno sciopero generale che a questo punto non è soltanto contro la manovra del governo. Esso spiazza e vanifica anche il pacchetto di modifiche predisposto dal Pd per un confronto che solo una visione arcaica e distruttiva dei rapporti politici può ritenere agevolato da uno sciopero generale. È come andare con un pugnale al tavolo di una trattativa politica. In realtà, nel principale partito di opposizione ci sono dirigenti che ancora ritengono una crisi di governo l'equivalente benefico di «due manovre finanziarie», come ha detto il capogruppo alla Camera Dario Franceschini. Che prima di partire per le vacanze aveva, in verità, paragonato una crisi a «tre manovre». Questo è lo sconto ch'egli ha voluto evidentemente fare alle preoccupazioni e ai moniti già ricordati del capo dello Stato, aspettandosene magari un sentito ringraziamento.