La Lega è tornata al 1994
I sostenitori più fanatici e gli avversari più irriducibili di Silvio Berlusconi sono curiosamente accomunati in questi giorni dalla sottovalutazione della crisi intervenuta nei rapporti fra lui e Umberto Bossi e, più in generale, fra il Pdl e la Lega. I primi scommettono pigramente sulla capacità del presidente del Consiglio e del suo alleato di ritrovare l'intesa sui contenuti della pesante manovra finanziaria di ferragosto all'esame del Senato. E si illudono che un compromesso, al netto del solito turpiloquio e degli altrettanto soliti gestacci di Bossi, compresa la pernacchia rivolta in piazza al segretario del Pdl Angelino Alfano, possa ristabilire davvero un proficuo rapporto di collaborazione in questo scorcio di legislatura, e persino nella prossima. Gli altri, gli avversari, non vogliono rinunciare alla rendita propagandistica procurata loro da un «gioco delle parti», come lo ha definito ieri in una intervista il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini, in cui il Cavaliere sarebbe destinato a subire le peggiori iniziative della Lega, magari in cambio di un sostegno, peraltro neppure lineare, sul fronte giudiziario. Agli uni e agli altri sono sfuggite la portata dei contrasti esplosi sugli aspetti sociali dell'ultima manovra fiscale e la confusione, temo irrimediabile, prodottasi fra i leghisti con la sempre più evidente lotta apertasi per la successione a Bossi. Della cui crisi si colgono impietosamente i segni quando una telecamera riesce a raccoglierne immagini e biascichi insolenti. Ogni giorno che passa si fa sempre più forte l'impressione che la Lega sia tornata all'estate del 1994, quando segò le gambe alla pur fresca alleanza di governo con il Cavaliere prima strizzando l'occhio alla Procura di Milano, alle cui proteste si accodò per rinnegare un decreto legge appena varato contro l'abuso delle manette nelle indagini, e poi condividendo le proteste sindacali contro una riforma delle pensioni che aveva il torto, allora come oggi, di volerne contenere i costi. Seguirono la caduta del primo governo Berlusconi e il cedimento della Lega alle pulsioni secessionistiche. Di cui il presidente del Consiglio ha responsabilmente avvertito i nuovi sintomi diffondendo una nota ufficiale contro l'epilogo dell'unità d'Italia e l'avvento della Padania appena preconizzati in piazza da Bossi. Che ci dirà probabilmente il resto fra qualche settimana, nei suoi appuntamenti d'autunno con le acque del Po. In diciassette anni, quanti ne sono trascorsi da allora, la situazione economica del Paese, anche per effetto delle crisi finanziarie intervenute a livello internazionale, è purtroppo peggiorata. Le terapie, chiamiamole così, della Lega sono ancora più impraticabili di prima. E più incompatibili con i programmi liberali e innovativi – altro che «conservatori», come diceva ieri Franceschini – di quel blocco sociale e politico accorpato nel 1994 dal Cavaliere raccogliendo gli elettori rimasti orfani dei partiti di tradizione democristiana, liberale e socialista. I «conservatori», caro il mio amico Franceschini, stanno tutti in quella che si chiama oggi impropriamente sinistra. E che si definisce riformista ma non vuole in realtà riformare un bel nulla, in compagnia purtroppo della Lega, quando si tratta di liberalizzare davvero e di combattere sprechi e privilegi. Sono tali, fra l'altro, quelli delle Province, sopravvissute scandalosamente alla ormai lontana istituzione delle Regioni; delle varie caste politiche e istituzionali cresciute all'ombra di una Costituzione scambiata dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani per una Miss Mondo; dei pensionati cosiddetti di anzianità, in realtà solo pensionati precoci, destinati a percepire ben più dei contributi versati da e per loro; degli amministratori locali, sempre pronti a insorgere contro i tagli che li riguardano e a scambiare per servizi pubblici a rischio di chiusura i disservizi che invece forniscono, dai trasporti alla sanità, per il loro dissennato modo di gestire danaro e aziende. Difendere tutto questo, anche a costo di aumentare le tasse già alte in vigore e di istituirne di nuove, o reclamando lotte inconsistenti all'evasione, che si possono condurre solo ampliando la deducibilità delle spese, con la fatturazione di tutto ciò che oggi alimenta l'economia nera e sommersa, è appunto da conservatori, non da progressisti. Da reazionari, non da riformisti. Difendere tutto questo equivale anche a condannare il Paese a rimanere schiacciato sotto il suo enorme debito pubblico. Che giustamente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha appena ammonito, con il suo intervento al Meeting annuale di Comunione e Liberazione a Rimini, a non scaricare «sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future» perché «significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale». Per cui – ha esortato – «faccia ora il Parlamento le scelte migliori». Mai applauso da sinistra è risultato più falso. Ma la Lega, di verbo bossiano o maronita che sia, non ha neppure fatto finta di applaudire.