È la fine di un'epoca
Uscitodall'Accademia Militare di Bengasi col grado di capitano dell'esercito, fu l'anima, anche ideologica, oltre che la guida operativa, del colpo di Stato del 26 agosto 1969, che avrebbe portato, in pochi giorni, alla fine della monarchia di Re Idris e alla instaurazione del regime durato fino agli ultimi drammatici avvenimenti di questi giorni. A Idris e ai suoi collaboratori egli, in nome del suo panarabismo e filonasserismo imputava atteggiamenti di troppo servile condiscendenza nei confronti del mondo occidentale, in particolare degli Stati Uniti e della Francia. Così facendo egli, presto autopromossosi colonnello, incarnò una forma di nazionalismo post-coloniale - apparso e precisatosi sulla scena mondiale in un'epoca già percorsa dal grande movimento storico della decolonizzazione - sul quale egli avrebbe, poco alla volta, con furbizia, abilità e spregiudicatezza, il suo sistema di potere. I primi passi del regime rivoluzionario si mossero in questo alveo, con iniziative politiche che servivano a ribadire la dimensione orgogliosamente e puntigliosamente nazionalistica e anticolonialistica del suo programma: nazionalizzazione delle proprietà petrolifere straniere, chiusura di basi americane e inglesi, espropriazione di beni della comunità italiana. E proprio il sentimento antiitaliano divenne per Gheddafi lo strumento cui far riferimento per legittimare il proprio potere e, soprattutto, per assicurare linfa vitale al suo nazionalismo. La Libia era stata una "creazione" o "costruzione" italiana nel senso che l'Italia, a partire dal 1911, dall'epoca della spedizione di Tripoli, in epoca giolittiana, aveva poco alla volta, nel tempo, unificato o messo insieme territori e gruppi etnici per i quali i concetti di nazione, di comunità nazionale, di Stato non avevano e non potevano avere alcun senso. E, ancora, aveva realizzato, negli anni a venire, segnatamente durante il periodo fascista, strumenti di unificazione amministrativa, servizi, infrastrutture, centri urbani, che erano serviti a valorizzarne le potenzialità e a farne la "perla" del pur modestissimo impero coloniale italiano. Per la costruzione di un "nazionalismo libico" Gheddafi - alla ricerca di un motivo che servisse da collante per la creazione di una "coscienza nazionale" per un popolo così eterogeneo dal punto di vista etnico qual era quello del suo paese - elevò a livello di "mito" il sentimento anti-italiano presentando l'Italia, la vecchia Italia coloniale, come una potenza sfruttatrice e come un ostacolo alla nascita della Libia come comunità nazionale, prima ancora che come Stato indipendente. In altre parole, la polemica anti-italiana, ricorrente con alti e bassi nel corso della vicenda umana e politica del dittatore libico, ha sempre avuto un valore strumentale e simbolico, di fattore aggregante e legittimante per il potere di fatto di Gheddafi. In questa ottica debbono essere riguardate le misure restrittive adottate nei confronti della numerosa comunità italiana in Libia a cominciare dal decreto del luglio 1970 che ne confiscava i beni per «restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori» e costringeva circa ventimila italiani a lasciare il Paese nell'arco di pochi mesi. Sempre in questa ottica, per esempio, va riguardato - in tempi più recenti quando l'immagine di un Gheddafi antioccidentale e filo-terrorista era stata messa da parte - l'episodio che, in occasione della sua prima visita in Italia nel giugno del 2009, ci mostra il dittatore libico in divisa con la foto sul petto di Omar al-Muktar, eroe della resistenza anti-italiana. Il "nazionalismo libico" di Gheddafi trovò una sua teorizzazione in quel Libro verde del 1976 che contestava comunismo e capitalismo e che sembrava voler prefigurare - attraverso l'uso di quel colore verde, di lì a poco ripreso nella bandiera nazionale libica e sottile richiamo alla religione musulmana, essendo il verde il colore di Maometto - la suggestione di uno Stato teocratico musulmano. In realtà l'essenza del regime di Gheddafi non era teocratica. Quella del "colonnello" era, e voleva essere, prima di tutto una dittatura personale di tipo nazionalistico, che utilizzava con estrema disinvoltura e con lucida spregiudicatezza tutti i motivi e gli appoggi che potevano risultare utili e funzionali al consolidamento del suo potere e al rafforzamento del suo paese in campo internazionale e, in particolare, nel Medio Oriente. Gli anni Settanta e gli anni Ottanta furono caratterizzati da un attivismo che vide Gheddafi in stretto contatto e collaborazione con dittatori e terroristi. Rientrano, in questo quadro, i finanziamenti libici all'Olp di Arafat, i tentativi di creare un'unione politica di Stati africani islamici, l'appoggio a personaggi come Amin Dada e Bokassa, il sostegno ai gruppi terroristici anti-israeliani e persino ai terroristi dell'Ira e via dicendo. Rientrano ancora, in questo quadro, quelle attività terroristiche in varie parti del mondo occidentale che spinsero gli Stati Uniti a mettere Gheddafi in cima alla lista dei propri nemici e, nell'aprile del 1986, sotto la presidenza di Ronald Reagan, a bombardare Tripoli nella segreta speranza di eliminare fisicamente il dittatore libico. Il culmine della fase terroristica internazionale di Gheddafi fu rappresentato dall'attentato - forse quello più disastroso prima dell'attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001 - all'aereo della Pan American del 21 dicembre 1988 che esplose sopra la cittadina scozzese di Lockerbee nel quale persero la vita oltre 260 persone. Di quel tragico evento, come è noto, soltanto recentemente è stata ammessa, da parte libica, una diretta responsabilità: prima Gheddafi aveva sempre negato di esserne stato ispiratore al punto da attivare una controversia con l'Onu per negare l'arresto dei du libici accusati di essere coinvolti nel fatto. A partire dagli anni Novanta si registrò, nella posizione internazionale della Libia, un mutamento di rotta, i cui momenti qualificanti furono la condanna e dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990, il sostegno alle trattative di pace fra Etiopia ed Eritrea, la presa di distanza dall'integralismo islamico, il graduale ravvicinamento agli Stati Uniti culminato con l'eliminazione, da parte di Bush, della Libia dall'elenco degli "Stati canaglia" e la collaborazione economica con alcuni paesi europei. Mutamento di rotta, si è detto, e non "conversione" perché l'essenza dittatoriale e "nazionalistica" del regime ha continuato - e non avrebbe potuto essere altrimenti - a sussistere. Adesso Muhammar Gheddafi esce di scena. Il rais è travolto dallo sconvolgimento epocale iniziato lo scorso anno in Medio Oriente e dall'effetto domino ad esso collegato oltre che, naturalmente, dalle tarde ambizioni di grandeur, politica ed economica, della Francia di Sarkozy desiderosa di assumere il ruolo di partner privilegiato del maggior paese petrolifero dell'Africa Settentrionale. La sua uscita di scena, però, è avvenuta nel modo peggiore. Per tutti. Anche per la democrazia.