Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Una manovra piena di bestialità

Esplora:
default_image

  • a
  • a
  • a

{{IMG_SX}}Pare che Tremonti abbia bocciato sul nascere l'idea di far pagare ai titolari di capitali rientrati con lo scudo una parte dei soldi. Quelli chiesti agli onesti con il contributo di solidarietà.. "Non si viola il patto con i contribuenti" sarebbe l'opinione del ministro. Ma che dire allora del prelievo retroattivo, cioè a valere dall'inizio del 2011, della stessa sovrattassa sui redditi oltre i 90 mila euro? Qui ciò che viene violato non è solo un patto, ma addirittura una legge dello Stato. La 212 del 2000, nota come Statuto dei contribuenti: che obbliga a non imporre tasse e tributi che abbiano, appunto, effetto retroattivo. Occhio anche alla data: nel 2000 era al governo l'Ulivo e ministro delle Finanze era Vincenzo Visco. La legge fu approvata anche per compensare la nota voracità fiscale del ministro Ds. Vogliamo dire che Tremonti sta superando il suo antico avversario e predecessore? Non è certo la sola bestialità contenuta nella manovra. Al di là del puro giudizio di equità (già ampiamente negativo), dalle pieghe dello stesso prelievo di solidarietà ecco infatti spuntare un altro trappolone: a differenza di quanto previsto per nel 2010 per gli "stipendi d'oro" dei dipendenti pubblici, e nel luglio scorso per le "pensioni d'oro", stavolta la sovrattassa si applica sul reddito complessivo, e non sull'imponibile come tutte le imposte dirette, Irpef in testa. Che significa? Che nel reddito complessivo entra di tutto, a cominciare dalla rendita virtuale della prima casa, che questo governo si è sempre fatto vanto di voler tutelare. Né il tributo fa distinzione tra chi è single e chi, con quel reddito, deve mantenere una famiglia di quattro o cinque persone, visto che dal reddito complessivo sono escluse le detrazioni per carichi familiari.   Andiamo avanti? Come segnale per ridurre costi e sprechi pubblici si è deciso di prendere in ostaggio la tredicesima dei dipendenti. Se i target di contenimento di questo o quel centro di spesa - dai ministeri agli ospedali - non viene raggiunto, salta dunque la tredicesima. Potremmo capire dirigenti e funzionari con responsabilità diretta di controllo e bilancio: ma che c'entrano medici e impiegati? Non solo. La misura fa il paio con il posticipo di due anni del Tfr, la liquidazione. Cornuti e mazziati. Ma non solo: non si è detto finora che gli accantonamenti del Tfr dovevano servire al decollo della previdenza integrativa? Contrordine compagni? L'elenco può proseguire con il balletto sulla previdenza e sui cosiddetti tagli alla politica. Si tratta di due campi diversi per portata e capacità di gettito, ma molto vicini per valenza politica. Obbedendo ai diktat della Lega, che di volta in volta riscopre la propria anima sociale quale erede della Cgil, si è deciso di perdere l'occasione per completare una volta per tutte la riforma delle pensioni, agendo sia su quelle di anzianità - fatti salvi i 40 anni di contributi, si poteva almeno intervenire sui pensionandi più giovani - sia su quelle di vecchiaia, allineando fin da subito a 65 anni l'età di pensionamento di donne e uomini nel settore privato. In quello pubblico l'anno scorso è bastato un tratto di penna e un decreto; qui siamo ai tempi biblici. Ancora. Sempre in ossequio alle lobby degli enti locali - Lega e Pd stavolta unite nella lotta - si è proceduto ad un taglio delle province che ogni giorno perde un pezzo. Al requisito dei 300mila abitanti si è aggiunta l'estensione geografica. Temiamo che non finisca qui. Ma se si riconosce che delle province si può fare a meno, si cancellino tutte a basta, come sosteniamo da tempo e come ha giustamente detto Pier Ferdinando Casini. Diversamente è una pagliacciata.   Le stesse misure per la crescita, che dovrebbero passare anche attraverso la liberalizzazione delle professioni, sono annacquate dalla non cancellazione degli ordini professionali e degli esami di Stato: resistono insomma i privilegi di medici, ingegneri, notai, avvocati, architetti, giornalisti. Ma soprattutto mentre si invitano - giustamente - i comuni a dismettere le quote delle aziende municipalizzate, non si capisce perché lo Stato non dia l'esempio almeno riducendo (e tutelandosi con una golden share) la propria partecipazione in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. Qualcuno ha calcolato che alla fine il prelievo fiscale vero, su chi paga le tasse, che attualmente a livello nazionale è al 44 per cento, salirà oltre il 50. Ancora peggio per le aziende. Mentre sugli autonomi ed i professionisti si sono scelti guanti incredibilmente vellutati, prima rinunciando a qualsiasi inasprimento fiscale, poi "promettendo una revisione" degli studi di settore. Restiamo insomma un paese nel quale un impiegato paga più imposte di un gioielliere, e talvolta di un commercialista. Né la situazione è destinata a migliorare con lo sblocco delle addizionali locali: dove Roma ha già il record nazionale del 2,5 sull'Irpef per cento tra addizionale comunale e regionale. Sempre a carico dei soliti fessi, ovviamente. A questo punto pensiamo che abbia straragione Antonio Martino: «Nel '94 eravamo partiti per ridurre il peso dello Stato e delle tasse. Dopo diciassette anni ci troviamo con più Stato e più tasse». C'è evidentemente qualcosa - anzi molto - che non va. Il Cavaliere è ancora in tempo per rimediare, imponendo a tassi invariati misure più eque, e soprattutto riforme strutturali. Diversamente non ci sarà un futuro né per il centrodestra, né temiamo per l'Italia: lo vedremo alle elezioni, sempre che nel frattempo non ci venga imposta una nuova manovra.

Dai blog