L'Inghilterra brucia. Il mondo crolla E il Financial Times pensa a Silvio
Dear FT (Financial Times) e caro E (The Economist), ma fateci il piacere. Se i fatti - come vuole la regola d'oro del giornalismo anglosassone di cui siete figli - vanno separati dalle opinioni, cominciamo col dire che il problema dell'Inghilterra, nell'estate del 2011 non è Silvio Berlusconi e neppure l'Italia. Le piazze e le strade delle principali città d'Oltremanica, Londra, Liverpool, Bristol, Birmingham,Manchester, in questi giorni d'agosto sono state messe a ferro a fuoco dalle rivolte e la capitale del Regno Unito è stata blindata da 16mila poliziotti. Anche a luglio, per la verità, nonostante il suo giornalismo british l'Inghilterra aveva avuto i suoi grattacapi, a cominciare dallo scandalo che ha colpito il News of The world, il giornale del gruppo Murdoch chiuso (per volere del suo stesso proprietario) dopo lo scoppio dello scandalo intercettazioni. Una vicenda su cui il premier britannico David Cameron ha dovuto riferire in Parlamento, per spiegare la decisione - presa tempo addietro - di assumere come portavoce Andy Coulson, ex direttore del News of the World. In un passaggio del suo intervento Cameron ha detto: «Un torrente di rivelazioni nelle ultime settimane ha incrinato la fiducia nei media, nella polizia e nella politica». L'Inghilterra che brucia, un giornale chiuso, il Primo Ministro che riferisce in Parlamento sono fatti (e separati dalle opinioni). Eppure, cari FT & E, non riuscite a dimenticare l'Italia e il suo Cavaliere. Intendiamoci, non che ci dispiaccia - dato che abbiamo smesso da tempo di essere un'espressione geografica - avere le attenzioni della stampa internazionale, in particolare la vostra. Certo, leggere ieri sul Financial Times un «Silvio's last chance to cut the deficit», l'ultima chance per Silvio, fa una certa impressione. «È difficile dire se gli italiani - prosegue l'articolo - stiano perdendo la loro fiducia in Silvio Berlusconi più di quanto i mercati finanziari ne stiano perdendo nell'Italia». E poi: «Ma ciò di cui l'Italia soffre in misura maggiore non è tanto un enorme debito, quanto piuttosto un superdeficit di leadership politica». Tanto per restare ai fatti, la crisi di leadership noi la vediamo in Spagna (Zapatero), in Inghilterra (Cameron), in Grecia (Papandreou) e qui ci fermiamo per ragioni di spazio. Quella di Silvio, però, a stare sentire gli inglesi, è sempre stata traballante. Basta addentrarsi nella emeroteca di FT & E, e guardare alla voce B, come Berlusconi, od I, come Italia. Dal Financial Times. Nell'agosto 2008 parla del pericolo di «alimentare reazioni xenofobe» in Italia dopo le misure sicurezza varate dal Governo. Il 9 ottobre 2009 scrive che «l'Italia starebbe meglio senza di lui» dove lui sta per Berlusconi. Lo scrive dopo aver sostenuto, pochi mesi prima, nel luglio del 2009, che Berlusconi è un uomo di Stato e non un playboy, pezzo uscita in occasione del G8 a L'Aquila. Una debolezza, probabilmente. Visto che nel 2010, a dicembre, il giudizio sul Cav, è lapidario: «È tempo che Berlusconi lasci Palazzo Chigi». Un crescendo: nel febbraio 2011, il mese di San Valentino e degli innamorati, FT annota: «La carriera politica di Berlusconi un giorno certamente finirà. E sarebbe la cosa migliore per la sua nazione e per l'Unione Europea se questo momento arrivasse ora e non più tardi». Il 17 marzo: «Un infelice compleanno per un paese civile». Grazie del civile, caro FT, ma il nostro 150mo ce lo stiamo ancora godendo. Da FT a The Economist la musica non cambia. Aprile 2008: «Mamma mia, torna Berlusconi»: beh, sì caro E, se un politico vince le elezioni in democrazia torna al Governo. Va così, pure in Italia. Novembre 2010: «Basta con la Burlesque-oni». 17 febbraio 2011. «Il più maschilista (ndr, sempre il Cav, ovviamente) dopo Mussolini». Per il nostro 150mo dell'Unità: «Happy-ish birthday», ma che ironici questi inglesi! Potremmo andare avanti ancora, evidenziando quando volte hanno scritto unfit, inadatto, al Cavaliere, liquidando con quell'aggettivo non soltanto un uomo politico (criticabile, come tutti noi) ma un intero Paese, il nostro, dietro a stereotipi un po' vintage. Perché il giornalismo anglosassone - come spiegava bene Montanelli - «è un luogo comune» e non basta essere inglesi o aver letto gli articoli di Beppe Severgnini per comprendere l'Italia.