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Se Berlino torna egoista

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Dietro l'offensiva speculativa di tipo finanziario nei confronti dell'economia italiana (e non soltanto italiana) c'è, pur fra altre cause destabilizzanti, un preciso attacco all'Euro e, quindi, al sistema Europa nel suo complesso. È un attacco portato avanti, con estremo cinismo e forte determinazione, da una Germania interessata, piuttosto che a salvaguardare e rafforzare il proprio trend di crescita economica, ad assicurarsi un ruolo egemone fra le Nazioni europee in virtù di un'economia solida capace di crescere al 3% annuo con tassi a breve termine dell'1% e del 2% a medio e lungo termine, mentre altre Nazioni - tra queste l'Italia - registrano un livello di crescita inferiore o attorno all'1% con tassi molto più elevati. In questa situazione la Germania ha tutto l'interesse a scardinare il sistema dell'euro, puntando, in prospettiva, se non alla sua abolizione alla creazione di un euro pesante che - lasciando da parte le fumisterie di tipo lessicale - significherebbe di fatto un grosso passo indietro. I segnali non mancano. Il primo, e più significativo, è ovviamente quello rappresentato dalla vendita, da parte della Bundesbank, dei titoli del debito italiano cui fa da contraltare la decisione di aiutare ad evitare il fallimento della Grecia, non già per motivi di tipo umanitario ma per puro e semplice interesse dal momento che esistono fitti intrecci tra l'economia finanziaria tedesca e quella greca. Il secondo segnale, peraltro non meno significativo, è l'esplicita opposizione tedesca all'acquisto da parte della Banca Centrale Europea di titoli italiani e spagnoli: un vero e proprio veto all'intervento europeo. La linea adottata dalla Bundesbank e dal governo tedesco è una linea, riconosciamolo, piaccia o non piaccia, ispirata a una visione sostanzialmente nazionalistica dell'economia e della politica. È un sintomo ben preciso di quella tendenza al recupero dei concetti di nazione e di nazionalismo che una retorica europeistica ha messo in ombra o ha cercato di tacitare. La verità è che la costruzione dell'Europa, una costruzione finora soltanto economica e burocratica, si è andata sviluppando secondo una direzione che, per usare il titolo di un brillante pamphlet di uno dei nostri più acuti diplomatici, l'ambasciatore Alberto Indelicato, può essere compendiata nella espressione «Eurolandia contro l'Europa». Ed è proprio, ancora, questa tendenza che ha spinto un acuto filosofo della politica, l'inglese Roger Scruton, a scrivere un breve saggio, di prossima pubblicazione in Italia, che evoca fin nel titolo - «Needs for Nation» - il bisogno, se non la necessità, di un recupero della dimensione e dei valori nazionali. Il comportamento tedesco nella attuale crisi finanziaria internazionale può, e deve, essere letto e interpretato alla luce dell'interesse o, se si preferisce, dell'egoismo nazionale. Una sorta, potremmo dire, di «nazionalismo economico». Non è un caso, del resto, che il «nazionalismo economico» e lo stesso concetto di «economia nazionale» siano stati teorizzati proprio nel mondo germanico quando, all'inizio degli anni quaranta del XIX secolo, l'economista Friedrich List pubblicò un volume - «Il sistema nazionale dell'economia politica» - nel quale, dopo aver sottolineato lo stretto legame esistente fra economia e politica, sosteneva la necessità di creare, rafforzare e difendere l'indipendenza economica nazionale. Si trattava di una teoria - nella sostanza protezionistica e che ebbe larga fortuna all'estero, tant'è che, in Italia, Alfredo Rocco la riprese in toto per farne la base del suo «nazionalismo economico»: una teoria elaborata in un'epoca nella quale la Germania, ancora divisa in piccoli Stati separati da barriere doganali, non aveva barriere protettive nei confronti delle nazioni vicine e della concorrenza estera. Né si può dimenticare che lo Zollverein, ovvero l'unione doganale tra quasi tutti gli Stati tedeschi e la Prussia divenne di fatto non soltanto uno strumento di progresso economico e difesa finanziaria ma anche e soprattutto la base politica per l'unificazione della Germania. Alle origini stesse della nascita della Germania moderna vi fu insomma il «nazionalismo economico» quale premessa e fondamento del «nazionalismo politico». Non si tratta, si badi bene, di una critica ma di una constatazione. D'altro canto, anche gli abili interventi del «mago del denaro» Hjalmar Schacht per superare, all'indomani della prima guerra mondiale, la crisi disastrosa innescata - problemi politici a parte - dalla politica di spesa della Repubblica di Weimar e il suo importante contributo, come presidente della Reichsbank, alla politica economica e finanziaria del suo paese rientravano in una visione di «nazionalismo economico». Ma si era in altri tempi, in tempi nei quali gli Stati cercavano, nel «quantum» di potenza e nella capacità di affermarsi come potenze espansive ed egemoniche, la loro stessa ragion d'essere. Si era, insomma, nell'epoca dei nazionalismi (e imperialismi) contrapposti. Adesso, in un'epoca che, almeno a parole, avrebbe dovuto segnare il superamento delle contrapposizioni e degli egoismi nazionali anche attraverso la creazione di strutture supernazionali come l'Unione Europea, il ritorno al «nazionalismo economico», quali che ne siano le forme, non è soltanto antistorico. È una scelta pericolosa che mette in crisi la sopravvivenza stessa dell'Unione Europea e della moneta unica.

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