Il mondo rimpiange il cowboy Bush comandava. Obama piaceva
Tropporude nei modi, poco francese nelle abitudini culinarie, troppo schietto nelle parole e nelle smorfie del viso. Eppure quel presidente, di nome George W. Bush, ha saputo guidare gli Stati Uniti attraverso anni duri, i più difficili della storia recente americana, battezzati con migliaia di morti dal terrorismo fondamentalista e binladista, con un attentato alle Torri Gemelle di New York. Era l'11 settembre del 2001. Da allora son passati quasi dieci anni e quel cowboy che piaceva poco al vecchio Continente ha lasciato il posto ad un presidente democratico: c'è, oggi, in America Barack Obama, un leader che alla Vecchia Europa piace parecchio. Forse perché le somiglia sin dal modo di comunicare, nel fascino da star politica (Hollywood, che non gradiva G.W. Bush è pazza per Obama), nel modo di porsi davanti all'opinione pubblica, attento a smussare gli angoli ed a puntare più sulla partecipazione che sulla decisione, negli slogan - come quell'«yes, we can» che ha rapito, tempo addietro, Walter Veltroni. La comunicazione, dicevamo. Che fosse importante per un uomo di Stato e di Governo se n'era accorto, nel secolo scorso, un altro presidente Usa, Franklin D. Roosevelt quando - scherzando - ripeteva ai suoi collaboratori: «Se ricominciassi la mia vita, penso che mi piacerebbe far carriera in pubblicità». Barack Obama, per i comunicatori politici del XXI secolo, è già un caso di studio grazie alle sue innovazioni mediali, a cominciare dall'uso di internet che tanto ha appassionato la generazione 2.0, sino ai video su youtube ed alle uscite in televisione. Eppure, a guardarle bene, le uscite comunicative - a cominciare dall'ultima, un discorso agli americani sulla crisi economica - del presidente Usa, ciò che le unisce, il loro tratto comune è soprattutto uno spirito europeo. In ciò George W. Bush, il cowboy, e Barack Obama, la star, sono profondamente diversi da non sembrare neppure connazionali. Sarà per questo che guardando le performance tv dell'attuale presidente Usa, in queste ore drammatiche per le economie delle democrazie occidentali, ci sembra che manchi qualcosa: la cattiveria della frontiera necessaria perché «quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». Sarà che Obama è kennedyano, ma ci pare che smussi. Non a caso in Europa i «sinceri democratici» ricordano ancora con emozione il suo discorso del 2008, a Berlino, sulle tracce del suo predecessore di mezzo secolo fa, JFK, quando Obama disse che «l'America non può isolarsi, l'Europa neanche. È arrivato il momento di costruire nuovi ponti, di abbattere i Muri che dividono popoli e razze». Parole sagge, purché gli Stati UIniti non si comportino da europei perché le democrazie occidentali hanno bisogno di un'America che faccia l'America e nient'altro. Sam Goldwyn - il fondatore della Metro Goldwyn Mayer, fabbrica di sogni in cinemascope nell'America del primo Novecento - che non era un ottimista ripeteva spesso che «dopo la pioggia arriva il brutto tempo». Chissà cosa avrebbe pensato oggi davanti ad una crisi economica che sembra non finire, con la retrocessione degli Stati Uniti firmata da Standard & Poor's e con la Cina che fa la voce grossa. Noi pensiamo che Barack Obama debba fare il cowboy e pazienza se nella vecchia Europa lo ameranno un po' di meno. Massimiliano Lenzi