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Smarrita la narrazione del miracolo italiano

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La politica non ha più niente da raccontare ed in queste ore stiamo assistendo alla morte dell'affabulazione, di quella capacità dei leader italiani, a cavallo tra la fine del Novecento ed il nuovo millennio, di farsi votare e di procurarsi consenso tra la gente grazie alla materializzazione di un sogno da far raggiungere agli italiani per migliorarne le condizioni di vita, materiali e non. Dopo la crisi e la fine dei partiti degli anni Novanta, in questa estate 2011 si sta consumando il collasso delle leadership che dal 1993, con l'avvento del maggioritario e la fine della I Repubblica, avevano preso il palcoscenico spazzando via ideologie e identità di partito. L'epilogo di questo declino si è materializzato nelle immagini del discorso di Silvio Berlusconi alla Camera e nelle repliche dei suoi oppositori, da Bersani a Di Pietro, nessuno escluso. Non si tratta di tifare per l'uno o per l'altro bensì di guardare sotto una lente i sintomi di una mutazione che fa entrare la politica italiana in una terza fase, ancora confusa, dopo quella dei partiti e quella dei leader. Silvio Berlusconi ha smarrito la narrazione del miracolo italiano, quella nuova frontiera kennedyana imbevuta, nel subconscio nazionale, del boom degli anni Sessanta e dell'edonismo degli anni Ottanta. Non c'è più, sopraffatta dalla crisi e dal perpetuarsi di un miracolo mai avvenuto. Restando nel centrodestra, Gianfranco Fini, presidente della Camera ed ex alleato del Cavaliere, non è riuscito, dopo l'affrancamento del Msi dal suo passato neofascista, a dar vita al gollismo italiano, restando confinato in uno spazio politico ristretto, quello di Futuro e libertà, che non si porta dietro grandi narrazioni se non quella (più che altro una speranza) di far cadere Berlusconi. Spostandoci da destra verso il centro incontriamo Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc: il suo discorso, mercoledì, è stato di certo il più coraggioso ma il sogno di un nuovo centro, un terzo polo che catalizzi gli elettori moderati, orfani della Dc, non affascina il Paese più di tanto. A sinistra, invece, la fascinazione politica sembra vagare sotto i colpi di una crisi d'identità. Romano Prodi, a modo suo, nel 1996 aveva costruito sulla mitologia dell'ingresso nell'euro un traguardo il cui raggiungimento incarnò una meta per la maggioranza degli italiani. Dopo quella narrazione il centrosinistra sembra essersi abbandonato ad un linguaggio tecnico, di numeri e conti, che va bene per amministrare un comune ma non per governare un Paese visto che non si può governare un paese senza dare un sogno ai suoi abitanti. Perché - come ha spiegato una volta per tutte Jacques Séguéla, fautore della comunicazione politica vincente di Mitterrand nelle presidenziali del 1981 e del 1988, il primo presidente socialista nella Francia della V Repubblica - «si vota sempre per una leggenda, mai per una banalità». La sinistra oltre al sogno europeo vede oggi appannata pure quella diversità morale che nel 1993, in piena Tangentopoli, divenne uno dei punti più sottolineati dall'allora leader dei Progressisti Achille Occhetto (che nel 1994 verrà comunque sconfitto da Silvio Berlusconi). Resta da analizzare la crisi narrativa della Lega, del dipietrismo e del vendolismo. La Lega ha smarrito la sua metastoria padana, la sua diversità da "Roma ladrona" perché otto anni di Governo nell'ultimo decennio logorano anche il più duro degli oppositori. Figurarsi chi si vuole di lotta (al Nord) e di Governo (nella Capitale). Infine Di Pietro e Vendola: il primo dopo aver declinato la propria fisionomia politica sul modello dell'eroe positivo che si oppone a Berlusconi sta cercando di sparigliare, dandosi una nuova linea tra il moderato e l'ironico, meno moralista e più pragmatica ma ancora da definire. Quanto a Nichi Vendola, nell'Italia del 2011, non ce ne voglia ma la sua affabulazione ci pare intrisa di una narrazione da sud del sud dei Santi, buona per la Puglia ma non per l'Italia.

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