Fini da Montecarlo a casa Tremonti
Valigie piene e parole vuote. Le valigie piene sono quelle che i politici hanno già portato via per le vacanze, o che hanno pronte al piede essendo in partenza, ma con la pretesa di farci credere che smaniano dalla voglia di disfarle per rimanere a Roma, a disposizione dei presidenti delle Camere. Dei quali ce n'è uno, l'ormai solito Gianfranco Fini, che si mostra contrariato per le resistenze del governo alle richieste di correre a farsi processare in Parlamento. Dove c'è infatti il solito - pure lui - Antonio Di Pietro smanioso di presentare la sua brava mozione di sfiducia, in un ennesimo esercizio da "asilo infantile", come ha giustamente osservato un rinsavito Pier Ferdinando Casini dopo avervi un po' ceduto anche lui. Le parole vuote, di contenuto e di sincerità, sono quelle che gli stessi politici pronunciano per farci credere, appunto, che sono partiti o stanno partendo malvolentieri per le vacanze. Alle quali sarebbero praticamente costretti solo da un governo sordo alle esigenze di farli lavorare ancora e di chiarire i misfatti suoi in generale e quelli, ora, in particolare del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Che nei suoi approcci con il problema casa, dopo avere disinvoltamente adoperato a Roma quella di un suo consigliere finito nei guai giudiziari, è riuscito a sorprendere persino Fini. Che proprio in una casa, quella ormai famosa di Montecarlo, lasciata in eredità al suo vecchio partito da una sfortunata elettrice di destra, è letteralmente e rovinosamente inciampato, peraltro senza avvertire il dovere di rassegnare le dimissioni. Eppure egli vi si era impegnato pubblicamente se fosse risultato ciò che le carte trasmesse dal Ministero degli Esteri alla magistratura romana, fra le rumorose proteste parlamentari dei suoi amici, hanno poi confermato: che cioè quell'appartamento è finito a prezzo, diciamo così scontato, nella piena disponibilità di suo cognato. Immagino il fastidio di Tremonti, al netto dei suoi indubbi e madornali errori quanto meno di comportamento, e dell'increscioso pasticcio nel quale si è messo anche nei rapporti con la Guardia di Finanza, nel vedersi in qualche modo additato in questi giorni pure da Fini. Che peraltro già una volta, due legislature fa, quando faceva ancora parte della coalizione berlusconiana di centrodestra, ne determinò l'allontanamento dal governo dopo avergli gridato in faccia, durante un vertice politico, all'incirca così: «Potrai anche intenderti di economia ma di politica non capisci un cazzo». Se non fu proprio questa la frase, vista la sua pesante portata, chiedo scusa per i colleghi che imprudentemente la riferirono facendola entrare nella letteratura politica dalla quale l'ho tirata fuori. Fra le parole vuote di contenuto e di sincerità che si leggono e si sentono in questi giorni di apparentemente sofferta partenza per le vacanze, o di prudente e sentito rinvio, come nel caso del presidente della Repubblica, ci sono quelle che hanno continuato a riproporre anche ieri il tema di un nuovo governo ispirato, diciamo così, dal capo dello Stato. Che dovrebbe nascere in autunno per sostituire quello di Berlusconi, del quale si immagina da parte degli avversari politici la caduta stagionale come le foglie dagli alberi, a dispetto della maggioranza di cui esso dispone sia al Senato sia alla Camera: una maggioranza più volte certificata con voti di fiducia dopo il 14 dicembre scorso, il giorno del fallito assalto finiano. Il coro di queste parole vuote ha tuttavia indotto Casini a prenderne lodevolmente ieri le distanze non solo destinando al già citato asilo infantile la minacciata mozione di sfiducia di Di Pietro, ma anche avvertendo le altre componenti dell'opposizione che un nuovo governo "di armistizio", come lui lo chiama, per avere qualche seria possibilità di nascere non può essere concepito in chiave "punitiva" nei riguardi di Berlusconi e del Pdl, visti i voti che l'uno e l'altro hanno "incassato" nelle ultime elezioni politiche. Ma è proprio questo carattere punitivo che il Pd della Rosy Bindi, di Pier Luigi Bersani e compagnia bella insegue immaginando l'arrivo dal Cielo, cioè dal Colle, di Mario Monti o di qualche altro "tecnico" a Palazzo Chigi. Come sarebbe avvenuto- usa spesso ricordare Walter Veltroni- con l'allora governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. «Gli ottimi nomi di tecnici che girano - ha opportunamente ammonito Casini in una intervista al Corriere della Sera - non possono espropriare la politica. Sono i partiti che devono assumere la consapevolezza di guidare una fase nuova». Ciampi infatti arrivò a Palazzo Chigi con la spinta dell'allora Pds-ex Pci e con la rassegnazione di una Dc e di un Psi ormai agonizzanti. Così come l'anno prima Giuliano Amato vi era arrivato su designazione del Psi di Bettino Craxi e della Dc di Arnaldo Forlani, azzoppati ma non ancora finiti. Per quanto malmessi, Berlusconi e il Pdl, ma anche la Lega, non sono nelle condizioni della Dc e del Psi ai tempi del governo Ciampi. E neppure Bersani, con i suoi Penati, è nelle condizioni del baldanzoso, per quanto arruffato, Achille Occhetto del 1993. Casini, che proviene pur sempre dalla scuderia forlaniana, evidentemente ha buona memoria. Che una volta tanto cerca di mettere a profitto.