Due pesi e due misure
Nel trentesimo, e poco gratificante, anniversario della celebre intervista a Eugenio Scalfari nella quale l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer rivendicò tanto orgogliosamente quanto arbitrariamente la "diversità" dei comunisti, intendendola per superiorità morale rispetto a tutti gli altri attori della politica italiana, Pier Luigi Bersani ne ha tentato una imitazione anacronistica. Il segretario del Pd, considerandosi anche lui diverso, sia pure sul piano solo politico e non anche genetico come il suo lontano predecessore, ha liquidato ieri come «fango» ciò che gli avversari si sono permessi di scrivere in questi giorni di lui e del suo partito a proposito delle indagini giudiziarie che li hanno direttamente o indirettamente toccati. Eppure le critiche e le contestazioni più incalzanti e imbarazzanti sono state rivolte a Bersani, ai suoi compagni e al suo partito non dai soliti «avversari» della stampa ch'egli considera più o meno al servizio dell'odiato Silvio Berlusconi, ma da quella di area, diciamo così, di sinistra. Per farsene un'idea bastava leggere ieri il giornale dell'ex direttore dell'Unità Antonio Padellaro e di Marco Travaglio, Il Fatto. Dalle cui pagine il segretario del Pd, che aveva scritto per difendersi dal sospetto di non avere più la credibilità per candidarsi elettoralmente alla guida del governo, usciva letteralmente a pezzi. In particolare, gli sono state pesantemente rinfacciate, fra l'altro, quelle che Travaglio ha definito «coincidenze» a proposito dei buoni uffici da lui svolti nel 2004 per fare incontrare l'imprenditore Marcellino Gavio e l'allora presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Ne nacque, fra l'altro, un accordo, inutilmente e pubblicamente contestato dall'allora sindaco di Milano Gabriele Albertini fra lo strano disinteresse giudiziario, per l'acquisto da parte di quella provincia di un pacchetto di azioni di Gavio dell'autostrada Serravalle, già controllata da mano pubblica. L'affare procurò all'imprenditore un guadagno, in plusvalenza, di circa 180 milioni di euro. Una parte dei quali fu investita nell'assai controversa e naufragata scalata delle cooperative rosse alla Banca Nazionale del Lavoro, sostenuta dalla dirigenza dei Ds-ex Pci. Più che prendersela con la stampa da lui attribuita alla proprietà o influenza del Cavaliere, che peraltro ne riceve spesso più danni che vantaggi, e persino con Padellaro e Travaglio, se e quando deciderà di prendere di petto pure loro, Bersani dovrebbe rammaricarsi di non essere mancino. Come soleva dire, e anche scrivere, Indro Montanelli di Giulio Andreotti quando il suo allora braccio destro Franco Evangelisti gli procurava guai. O soltanto lo metteva in imbarazzo discorrendo, per esempio con Giampaolo Pansa, allora a La Repubblica, del modo un po' troppo allegro e disinvolto in cui procurava finanziamenti alla sua e persino ad altre correnti della Dc. Quando non si ha la fortuna di essere mancini, si sa, il braccio destro è quello che conta di più fra i due che ci ha dati mamma Natura. Purtroppo Penati, al quale sinceramente auguro di uscire indenne dalle indagini che lo riguardano, e per quelle che dovessero ancora investirlo, è stato per un po' il braccio destro, appunto, di Bersani. Che però ieri ha preferito occuparsi, con allusioni e proteste in una conferenza stampa semplicemente da dimenticare, solo dell'ex braccio destro - pure lui alle prese con guai giudiziari - del ministro Giulio Tremonti. Dio mio, che scivolata, povero Bersani. O che salto all'indietro.