Solo Pannella può salvare Papa
Alfonso Papa, il deputato del Pdl e magistrato detenuto a Poggioreale dopo l'autorizzazione votata alla Camera a scrutinio formalmente segreto, è di sicuro un pasticcione. Ma i suoi colleghi di toga, accusatori e giudice per le indagini preliminari, gli fanno una concorrenza imbarazzante. Sulla quale vorrei richiamare l'attenzione particolare di Marco Pannella perché, in coerenza – come spiegherò – con il suo passato, riequilibri in qualche modo il ruolo un po' troppo manettaro svolto in questa vicenda dalla pattuglia radicale di Montecitorio. Che è presente – ahimè – nel Pd. Il pasticcio di Papa esula dagli addebiti giudiziari che lo riguardano, e sui quali non oso esprimere valutazioni di merito, in attesa degli sviluppi delle indagini e dei processi che dovessero scaturirne. Il suo è un pasticcio istituzionale, che ha commesso con la richiesta, respinta immediatamente dal giudice Luigi Giordano, su parere conforme dei pubblici ministeri, di partecipare ai lavori e alle votazioni delle commissioni parlamentari di cui fa parte, pur essendosene volontariamente sospeso per ragioni conclamate di opportunità prima dell'arresto. Ma quanto è stata bislacca e pasticciata la richiesta di frequentare le commissioni, tanto ragionevole e fondata è stata l'istanza di Papa, anch'essa respinta, di partecipare ai lavori e alle votazioni d'aula di Montecitorio, continuando egli ad essere a tutti gli effetti un deputato. Dalle cui funzioni si può decadere solo per effetto di una sentenza definitiva di condanna, non per un arresto cautelativo come il suo. Che solo un forcaiolo, non so se più malvagio o ignorante, può scambiare per un anticipo di pena, in attesa del processo, se e quando vi si arriverà: di primo, secondo e terzo grado. La rapidità con la quale il giudice ha precluso anche l'aula di Montecitorio a Papa, il cui voto peraltro potrebbe risultare determinante per il governo, visti i numeri di cui la maggioranza dispone alla Camera, è inquietante. Il presidente del Consiglio ne ha già tratto spunto, forse non a torto, per avvertire la natura politica della intera vicenda giudiziaria. Che sarebbe naturalmente gravissima, pure se all'aggettivo «politica» si volesse prudentemente anteporre l'avverbio «anche». Già 28 anni fa Marco Pannella rivendicò il diritto di un parlamentare di esercitare le sue funzioni anche da detenuto. Era in gioco allora la posizione di Toni Negri, da lui candidato con successo nel 1983 alla Camera con il dichiarato proposito di sottrarlo allo stato di detenzione in cui era costretto, sotto processo per gravi reati di associazione terroristica ed eversiva. La clamorosa elezione obbligò i magistrati a scarcerare l'imputato per via dell'immunità parlamentare che gli spettava. Ma che non toglieva loro il diritto, prontamente esercitato, di chiedere l'autorizzazione a riarrestarlo. Che fu concessa nel giro di pochi mesi, peraltro con l'astensione decisiva dei radicali, motivata per ragioni di principio contro le norme che disciplinavano la complessa materia della custodia preventiva. Lo scenario che si era astutamente prefigurato Pannella per portare avanti la sua battaglia contro la carcerazione prima della condanna – una battaglia che coerentemente egli conduce ancora in questi tempi di ormai abituale sovraffollamento delle carceri – prevedeva a giorni più o meno alterni la traduzione di Negri dal carcere al Montecitorio per garantirgli l'esercizio del mandato parlamentare, pur in condizioni detentive. La spinosa questione fu informalmente esaminata sia negli uffici della Camera, allora presieduta da Nilde Jotti, sia in quelli del Ministero dell'Interno, allora guidato da Oscar Luigi Scalfaro. Negli uni e negli altri si riconobbe una certa fondatezza alle ragioni di Pannella. Il cui scenario fu però vanificato dalla decisione di Negri di sottrarsi alla detenzione fuggendo in Francia, dove si guadagnò addirittura una docenza universitaria. A quella fuga, via mare dalle coste toscane, non fu probabilmente estraneo un allentamento della sorveglianza della Polizia, al cui vertice si preferì con evidenza un latitante ad uno scomodissimo deputato da gestire in condominio tra Montecitorio e Regina Coeli. Pannella si arrabbiò come una bestia con Negri, scrivendogli ad un certo punto attraverso il Corriere della Sera. E gli chiese quanto meno di dimettersi per consentire il subentro del primo dei non eletti radicali alla Camera. Ma il professore rifiutò, delegando per giunta una persona fidata a riscuotere l'indennità parlamentare. Che fu regolarmente pagata sino all'esaurimento della legislatura e del suo mandato parlamentare, nel 1987. Nel frattempo egli fu condannato a 30 anni, ridotti a 17 in appello. Ora Pannella, per fortuna vivo e arzillo, a dispetto di tutte le volte che mette a rischio la vita con i suoi digiuni, può ben battere un colpo a favore dei diritti parlamentari di Papa: uno di quei colpi che lui solo, peraltro fresco di un lungo e cordialissimo incontro con il presidente della Repubblica, sa sferrare facendosi sentire anche dai sordi.