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Il Cav deve lasciare palazzo Chigi? Serve piuttosto un passo in avanti

Silvio Berlusconi

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Che il governo di centro-destra sia stato una vera e propria delusione per tutti i liberali, e più in generale per i moderati che in esso avevano creduto, è un dato di fatto. Che il suo bilancio politico - quanto a riforme effettuate e a promesse mantenute - mostri più ombre che luci è un altro dato di fatto. Che esso abbia contribuito allo scadimento di una corretta dialettica democratica attraverso la confusione tra la sfera pubblica e quella privata, con lo spostamento per esempio, dei luoghi di decisione dai palazzi del potere alle residenze del premier è, ancora, un altro dato di fatto. E si potrebbe continuare a lungo riempiendo un cahier de doleance che spiega il crollo della popolarità del premier e rende plausibile, se non addirittura probabile, una sonora sconfitta alle prossime elezioni. Tutto questo, però, non è sufficiente, a mio parere, per augurarsi un «passo indietro» di Berlusconi, come vorrebbero le sinistre e come, pure, desiderano tanti improvvidi sostenitori del cosiddetto «governo tecnico» e tanti personaggi in lista d'attesa per il ruolo di successore del premier. Non è sufficiente, perché in un sistema liberal-democratico i governi vanno in crisi e i loro esponenti tornano a casa soltanto dopo un voto di sfiducia da parte del Parlamento. Fino a quando ciò non si verifica, il governo ha il «dovere», morale e politico, di rimanere in carica. Le crisi estraparlamentari sono un fenomeno «patologico» per un sistema politico che intende rifarsi ai principi, alla logica, alla prassi della liberal-democrazia. E chi le auspica o, in qualsiasi modo, le promuove, tramando nell'ombra ma anche parlandone apertis verbis, calpesta le regole basilari di ogni sistema rappresentativo fondato sulle libere elezioni e, nel nostro caso, gli stessi dettami della carta costituzionale. È un golpista ovvero un aspirante golpista. Sia pure, concediamolo, un golpista democratico. Quegli esponenti di rilievo della politica e dell'economia, che si riuniscono più o meno riservatamente per disegnare scenari futuri e per designare premier futuri si comportano come congiurati. E quei giornali e giornalisti che fanno loro eco e appoggiano l'idea del «governo tecnico» ne sono complici. D'altro canto, un «governo tecnico» è - si perdoni il bisticcio di parole - «tecnicamente» impossibile, se non per altro, almeno per il fatto che, una volta costituito, esso deve, comunque, raccattare una maggioranza in Parlamento e, nel momento stesso nel quale si rivolge ai partiti, acquisisce una valenza o colorazione politica e si consegna alla mercé dei loro capricci, dei loro traffici, delle loro pretese, dei loro ricatti. Per non sottostare a giochi e intrallazzi di partito, esso dovrebbe poter lavorare senza preoccuparsi di ottenere il voto positivo sui provvedimenti che deciderà di varare. In tutta la storia dell'Italia post-fascista, non dimentichiamolo, c'è stato - a ben vedere - un solo vero «governo tecnico», quello guidato dal maresciallo Badoglio, responsabile unicamente davanti al sovrano. E non è stata una bella esperienza. Ma c'è di più. C'è, contro l'idea o la tentazione del «governo tecnico», la saggezza di Luigi Einaudi il quale dimostrò - son parole sue - che «nessuno è più incompetente a governare gli uomini di chi è perito in tutt'altra cosa». E aggiunse che «purtroppo i politici italiani al peccato veniale di nulla sapere della tecnica, aggiungono il peccato mortale di essere ignari anche della politica». Per questo sembra del tutto fuori luogo pensare a un «passo indietro» di Berlusconi per quanto egli possa essere politicamente e, aggiungo, moralmente acciaccato. Sarebbe invece molto meglio se egli, disponendo di una maggioranza parlamentare, avesse il coraggio di fare un «passo avanti» rinnovando il governo con l'immissione di persone che diano un concreto segnale di recupero di quegli ideali liberali e liberisti che gli garantirono il più elevato livello di consenso di tutta la storia parlamentare italiana. Questo, sì, sarebbe un atto di coraggio. Nel pieno e totale rispetto della democrazia rappresentativa.

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