Il Cav deve lasciare palazzo Chigi? Se Silvio abdica la Sinistra va in crisi
La politica procede anch'essa sulle gambe degli uomini, ma alla fine riesce a prescinderne e a imporsi persino su chi l'ha fatta a lungo camminare combinando coraggio, fantasia, furbizia, fortuna e naturalmente consenso elettorale. Che molte volte non precede ma segue tutto il resto, com'è accaduto nel caso di Silvio Berlusconi. Il quale nel 1994 inventò un partito con le sue doti di imprenditore e di comunicatore procurando una sconfitta che più cocente non poteva risultare ai comunisti. O come diavolo essi avevano preferito chiamarsi per cercare di sfuggire al miserevole crollo della loro ideologia con l'aiuto di un bel po' di Procure della Repubblica. Che li avevano liberati dei vecchi avversari colpendo a senso praticamente unico il diffusissimo e consolidato finanziamento illegale della politica, con o senza le appendici della corruzione e della concussione. I moderati, come vado scrivendo da allora, non potranno mai essere grati abbastanza al Cavaliere di quella sua provvidenziale iniziativa politica, per quante delusioni egli possa avere loro procurato negli anni successivi, e particolarmente in questi ultimi, un po' per errori che si e ci poteva risparmiare, un po' per gli sgambetti dei suoi alleati, cresciuti attorno a lui più come serpenti che come puledri, un po' per le rigidità di un sistema istituzionale diventato arcaico nei tempi di internet, un po' per un contesto internazionale che non lo ha certamente favorito. Non parliamo poi, tanto essa è evidente, della persecuzione giudiziaria che egli ha dovuto subire con enorme dispendio di energie morali, fisiche ed economiche. E che i suoi ex alleati di centro e di destra disinvoltamente dimenticano, o addirittura negano, dopo averla riconosciuta e deplorata, magari quando pensavano che essa fosse più rapida nella produzione dei suoi effetti per poterne ricavare i frutti successori. Alla luce di tutto questo ripugna anche a me, come agli amici Ruggero Guarini ieri e Francesco Perfetti oggi, l'idea di una rinuncia del Cavaliere, per giunta nel momento in cui essa viene reclamata dai vecchi e nuovi avversari politici. Che ritengo tuttavia destinati a subire da un simile evento i danni maggiori, da votati al suicidio politico come tante volte hanno già dimostrato di essere. In particolare, essi si illuderebbero di non fare più i conti con Berlusconi, essendo poi obbligati a farli più pericolosamente e rovinosamente con il berlusconismo, che è ormai un fenomeno politico e sociale consolidato. Al quale una più libera leadership morale del Cavaliere può giovare, nelle attuali circostanze, più di una sua affannosa premiership, alla guida cioè del governo. Per quanto possa apparire paradossale, è quindi più puntuta la spada di una volontaria rinuncia, senza le cervellotiche e rivoltanti congiure di palazzo coltivate dalle opposizioni, che quella di un arroccamento. Berlusconi può ben sopravvivere politicamente ad un passo indietro, aiutando una nuova generazione a crescere e a sviluppare il suo progetto di società. Gli avversari invece, uniti solo contro di lui ma divisi su tutto il resto, non sarebbero in grado di sopravvivere ad una sua rinuncia. Essi pensano, poveretti, di farsi apprezzare dagli elettori con le «dieci parole» delle quali vanno cianciando, come loro programma identificativo, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e il suo vice Enrico Letta. Ma dieci parole varrebbero, per la loro forzata genericità e astrattezza, quanto le quasi trecento pagine del programma prodiano dell'Unione del 2006. Cioè, nulla.