Casi Penati e Tedesco, l'autodifesa di Bersani
Contrordine compagni: non siamo diversi. O meglio, un po' lo siamo, ma non del tutto. Pier Luigi Bersani rompe il silenzio che andava avanti da qualche giorno. Lo stesso che faceva immaginare un certo imbarazzo del segretario per le vicende giudiziarie che stanno coinvolgendo uomini del partito a lui vicini (su tutti l'ex presidente della provincia di Milano Filippo Penati). Lo fa con una lettera al Corriere della Sera che pur spiegando che il Pd è due passi avanti rispetto a tutti gli altri partiti sul tema della legalità e della trasparenza, ammette: «Sappiamo, anche per il futuro, di non poter essere immuni da sospetti più o meno fondati e da rischi. Sappiamo che anche noi dobbiamo aprire quattro occhi e fare tutto quanto ci è possibile per migliorare procedure di garanzia ed evitare che venga oscurata la nostra missione». Insomma ad essere cattivi, verrebbe da pensare che quello del segretario è un tentativo di mettere le mani avanti. Nemmeno lui può garantire fino in fondo sui suoi e se in futuro dovessero arrivare altri «fulmini a ciel sereno», la giustificazione è pronta: nessuno è immune da rischi. Per il resto Bersani si limita ad augurarsi che Penati, che «ha fatto con correttezza e responsabilità un passo indietro», «possa vedere presto riconosciuta l'innocenza che rivendica con forza». E lancia l'idea di una «legge sui partiti che garantisca bilanci certificati, meccanismi di partecipazione codici etici, pena l'inammissibilità a provvidenze pubbliche o alla presentazione di liste elettorali». Nulla da dire, quindi, sul perché il Pd abbia permesso l'ingresso in Parlamento, quando era già coinvolto in indagini, del senatore Alberto Tedesco. Lo stesso che oggi, dopo essere stato salvato dall'arresto, si dimette dal Pd e si tiene stretto lo scranno. Per lui Bersani ha solo un commento laconico: «Per il partito le dimissioni bastano, ma per il Paese io gli ho chiesto un passo indietro». Dopotutto Tedesco è entrato in Parlamento quando il segretario del Pd era Dario Franceschini e lui poteva non sapere. Nessun riferimento nemmeno ai vari Pronzato e Gavio su cui Il Fatto Quotidiano lo incalza da giorni (il segretario, però, risponderà oggi con un'altra lettera al quotidiano di Travaglio e Padellaro). Basta così: un bagno di umiltà e tutti felici e contenti. «Condivido la lettera di Bersani dalla prima all'ultima parola» commenta Massimo D'Alema. «La lettera di Pier Luigi Bersani al Corriere della Sera tronca ogni strumentalizzazione - gli fa eco il vicesegretario Enrico Letta -. Traccia la strada. Segna la differenza tra il nostro approccio e quello degli altri. Noi diciamo: la legge è uguale per tutti; rispetto per il lavoro della magistratura; in caso di inchieste le istituzioni e il partito, in attesa che le cose si chiariscano, non devono essere messi in imbarazzo e devono poter agire in piena serenità». Ma c'è anche chi fa un passo ulteriore. «Abbiamo mostrato la nostra diversità che non è né antropologica né genetica ma nei fatti - rilancia Rosy Bindi -, perché noi non siamo un partito organizzato intorno a un conflitto di interessi. Rivendichiamo la nostra diversità intanto perché quando si presume che qualcuno abbia sbagliato, quel qualcuno estingue tutte le sue posizioni. E poi perché abbiamo regole interne molto forti e siamo pronti ad affrontare sul piano legislativo ulteriori approfondimenti che restituiscano alla politica credibilità e forza». Mentre Felice Casson non ha dubbi: «Sono convinto che il Pd, rispetto al problema della corruzione, sia geneticamente diverso dal centrodestra, soprattutto perché sono diversi i suoi militanti e i suoi rappresentanti». E ora bisogna solo sperare che non succeda altro.