"È Bossi la guida salda della Lega"
Nome in codice "Bobo", classe 1955, varesino doc, una laurea in giurisprudenza ma soprattutto una grande passione per la politica che scorre nelle sue vene da quando, appena sedicenne, decise di militare nel gruppo marxista-leninista della sua città. Da allora Roberto Maroni di strada ne ha fatta molta fino ad arrivare a sedere sulla poltrona più prestigiosa del Viminale come ministro dell'Interno. «È l'uomo della svolta», «Premier subito», «Bobo, Bobo», erano i cori che la sua gente gli gridava dal «sacro» prato di Pontida. Una folla emozionata che, di fronte agli impietosi segni del tempo lasciati sullo stanco volto di Bossi, ha voluto mandare un messaggio chiaro: dopo l'Umberto è Bobo che deve prendere in mano le redini del Carroccio. È passato poco più di un mese dal raduno del 19 giugno e mercoledì, per la prima volta, Maroni ha calcato la mano. Ha dimostrato, chiedendo ai suoi di votare «sì» all'arresto di Papa, che la linea la detta lui. Ha fatto chiarezza e ha mandato un messaggio chiaro al leader del Carroccio: se la Lega vuole ancora di avere il consenso della gente deve dare dimostrazione di tenersi le mani libere dal Pdl su tutti quegli argomenti che esulano il programma elettorale concordato nel 2008. Basta sostegno a leggi ad personam o «salva casta», basta appoggi a norme che colpiscono le fasce deboli del Paese o il Nord Italia. Tutto questo fa parte del passato. Ora la Lega, pur rimanendo «responsabile» all'interno del governo, deve tornare ad essere «rivoluzionaria». Ed ecco che l'uomo perfetto che rivesta entrambi questi ruoli è proprio Maroni. Insomma: “celodurismo” sì, ma con astuzia. Da una parte sa essere ministro, dall'altra sa parlare al cuore della base. Da una parte sembra prendere le distanze da Bossi, ma dall'altra tutti sono consapevoli che non farebbe mai alcunché di sgarbato nei confronti del suo vecchio amico perché è proprio grazie a quell'uomo se Maroni potrà ambire, un giorno, a guidare il partito del Nord. E per capire questo bisogna fare un salto indietro di 32 anni. Era l'ottobre 1979. Maroni, appena 24enne, neolaureato che votava per Democrazia Proletaria, si trovò, grazie ad un amico, nella casa di Umberto a Capolago, frazione di Varese. Si vagheggiava di autonomie e federalismo, di lotta “catalana” contro “Roma ladrona”. Roberto pensò: «Sto perdendo tempo». Ma poi nacque l'idea di una rivista militante. Da lì, cominciò il sodalizio. Da allora, Roberto è sempre al fianco di Umberto nelle battaglie, nei successi e nei (pochi) insuccessi ottenuti. Assieme a Bossi e Giuseppe Leoni fondò, nel 1984, la Lega Lombarda diventandone segretario provinciale a Varese. E cinque anni dopo partecipò alla fondazione della Lega Nord. Una strada tutta in ascesa per il giovane politico amante della musica (dal 1983 è il tastierista nel suo gruppo: i Distretto 51, ndr) tanto che nel 1992 entrò alla Camera diventando presidente del gruppo parlamentare leghista. Da quel momento in poi, il suo rapporto privilegiato con il Nord «operoso» s'intreccerà continuamente con le vicende politiche italiane, diventando uno dei volti leghisti più noti – e forse tra i più rassicuranti – a livello nazionale. È già al governo nella prima, breve, esperienza berlusconiana del 1994, che proprio il suo partito fece cadere, dopo appena sette mesi. È l'inizio del periodo «secessionista» durante il quale la Lega sembra prendere una china quasi eversiva e anche in quel periodo Maroni vuole essere in prima linea tanto da farsi indagare dalla magistratura per reati legati al vilipendio dell'unità nazionale. Poi nel 2001 Berlusconi sdoganò, ancora una volta, la Lega e Maroni divenne ministro del lavoro e delle Politiche sociali. Poi la parentesi prodiana all'opposizione, e il nuovo, incarico al Viminale. Questa è la storia di Bobo. Uomo pragmatico ma che sa aspettare il suo turno perché, come ha ribadito ieri, «nella Lega c'è un gruppo compatto e c'è la guida salda di Umberto Bossi. Tutto il resto sono ricostruzioni fantasiose».