Voleva essere arrestato e adesso non si dimette
Alberto Tedesco non è Groucho Marx. E non solo per l'aspetto fisico, per l'assenza dei famosissimi baffoni. Anche la verve comica, presumibilmente, non è la stessa. La vera differenza, però, sta tutta in un famoso aforisma del comico americano che, dimettendosi dal Friar's Club di Hollywood, sentenziò: «Non voglio far parte di un club che persiste a volermi accettare come membro». Ecco, fatte le dovute distinzioni, il senatore del Pd non è neanche lontano parente di Groucho. Lui che mercoledì, grazie ai voti del centrodestra, è stato "salvato" dalla richiesta d'arresto presentata dalla procura di Bari, non ha alcuna intenzione di lasciare il suo "club". E pensare che, proprio parlando davanti all'Aula di Palazzo Madama, Tedesco aveva chiesto di non essere "graziato". Voleva andare in galera. Questa almeno la versione consegnata alle telecamere e ai verbali del Senato. Una versione che, visti i recenti sviluppi, comincia a scricchiolare. Già, perché incassato il risultato, il senatore Democratico ha ben pensato di rimanere al suo posto. Ve bene la galera, ma meglio lo scranno parlamentare. Così ieri Tedesco ha ribadito ciò che aveva detto mercoledì sera: «Avrei preferito il sì all'arresto per salvaguardare l'istituzione Senato. Ma ora ho il dovere di restare al mio posto». Peccato che la sua decisione non convinca né la base, né buona parte dei big del partito che, al contrario, preferirebbero un passo indietro. E immancabile esplode la polemica. Il segretario Pier Luigi Bersani prova a giocare di rimessa: «Ho ascoltato un discorso di assoluta dignità da parte del senatore Tedesco e se resta coerente con questo discorso ci si può aspettare un passo indietro». In ogni caso, ricorda, «Tedesco non è nel gruppo del Pd ma nel gruppo misto. Papa dopo l'arresto non si è dimesso e una volta prosciolto tornerebbe deputato. Quindi i due casi non sono esattamente simmetrici». Bella consolazione. Soprattutto per chi continua, un giorno sì e un altro pure, a definirsi «diverso» dal centrodestra. In particolare sul tema della legalità. Non a caso il coro delle voci critiche aumenta con il passare del tempo. A favore delle dimissioni si schierano l'eurodeputata Deborah Serracchiani, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, ma anche nomi "pesanti" come quelli di Rosy Bindi e Walter Veltroni che, pur non parlando pubblicamente, fanno filtrare un certo malumore. Lo stesso che i militanti riversano su Facebook, nella pagina ufficiale del partito. «Tedesco aveva chiesto che l'Aula votasse a favore degli arresti domiciliari - scrive Gianluca -. Un secondo dopo il risultato doveva dimettersi. Il resto sono solo comportamenti ipocriti di un partito senza credibilità». E sono in molti a condividere le sue parole. Nel frattempo, mentre Arturo Parisi attacca Nicola Latorre chiedendogli di spiegare perché non è riuscito a votare («un banale guasto tecnico ha impedito che il mio voto, e non solo il mio, fosse registrato elettronicamente» replica il vicepresidente dei senatori Pd), l'ex Ppi Lucio D'Ubaldo annuncia che lui, insieme ad altri 15 esponenti democratici, ha «votato no all'arresto». E non è il solo caso che agita il partito di Bersani. Se a Roma tengono banco le mancate dimissioni di Tedesco, a Milano si discute delle indagini che hanno colpito l'ex presidente della provincia Filippo Penati, indagato per presunte tangenti. Felice Casson, ex magistrato ed oggi senatore del Pd, parla di «questione morale». Ieri Penati ha lasciato la carica di vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia, ma non la poltrona di consigliere. Neanche lui somiglia troppo a Groucho Marx. Nic. Imb.