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La guerra continua

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IlPaese confinante. Tutti noi alla Norvegia ci pensavamo di striscio, forse neanche. Eppure proprio a Oslo il destino beffardo ha deciso di mettere la firma del terrore. Pensateci bene, cari lettori, il centro della città che assegna il premio Nobel per la pace ieri assomigliava a una ghost town, una metropoli spettrale. Perché quando un'intera nazione percepisce la minaccia, il pericolo collettivo, è chiaro che tu hai già perso un pezzo della tua libertà. Se fino a ieri passeggiavi tranquillo senza far troppo caso a quello che avevi intorno, oggi i tuoi sensi sono improvvisamente vigili, ipersensibili, un radar. Si chiama paura. I terroristi se ne nutrono e la producono. E dunque nel profondo nord dei fiordi, della ricchezza energetica, dell'opulenza che nasce dal petrolio del Mare del Nord ora fanno i conti con quella sigla che si pensava sepolta per sempre nell'oceano assieme al corpo di Osama. Dall'11 Settembre a oggi la nostra conoscenza del fenomeno jihadista si è molto approfondita. Sappiamo che Al Qaeda è più una sigla che un'organizzazione ramificata, che la formula del franchising ha sostituito quella dell'addestramento negli ex santuari dell'Afghanistan e del Corno d'Africa, che Bin Laden era sempre il capo ma non per questo insostituibile, che per organizzare un attentato efficace più che denaro e risorse materiali servono intelligenza, pianificazione e l'effetto sorpresa. Diciamo la verità, non esiste un Paese capace di blindarsi totalmente rispetto a questo pericolo, ma se osserviamo la scia di attacchi multipli non possiamo fare a meno di notare che il target, l'obiettivo dei qaedisti fai-da-te si è abbassato notevolmente: un tempo gli obiettivi erano il Grande Satana, gli Stati Uniti, il suo principale alleato e cugino, la Gran Bretagna, e a scalare tutti gli alleati di un certo peso. Ma quando l'Occidente ha preso consapevolezza del pericolo e si è fatto più prudente, attrezzandosi con nuovi sistemi di autodifesa interna, i professionisti del terrore hanno dovuto ripiegare su altri paesi. India e Norvegia, appunto. Il problema non è chi sarà il prossimo, ma come non ripiegare su se stessi. In Europa il dibattito pubblico ha completamente cancellato il tema del terrorismo islamico e delle sue ramificazioni nel Vecchio Continente. Parlarne è politicamente scorretto, evocare le dottrine dei neoconservatori - oggi più che mai attuali - equivale a beccarsi una scomunica dal salotto. Ma quelli che sognano il Califfato e la Conquista di Vienna non lasciano il kalashnikov per prendere la zappa. Intendiamoci, l'Occidente ha compiuto molti errori di valutazione, ma il peccato più grande è quello di continuare a vergognarsi di essere se stesso. Abbiamo aperto in Italia un surreale dibattito sull'Afghanistan, per non parlare di come riusciamo a far finta di non essere in guerra pur essendolo (vedi alla voce Libia). È questo il punto fondamentale della questione: non voler mai fare i conti con la realtà, continuare a sognare un mondo ideale, dove il terrore esiste solo per gli altri, le minacce globali sono locali e il semplice disimpegno da tutto ti mette al riparo dei proiettili. Poveri illusi. Non è lasciando la trincea che la guerra scompare, non è posando il fucile che il nemico smette di odiarti. Le teorie isolazioniste fanno sempre a pugni con la volontà di potenza del nemico. Questa tentazione è un'ondata che compare spesso nella politica americana, e dalla fine della Seconda Guerra Mondiale è una costante della politica europea, pronta a sventolare la bandiera della pace a patto che la guerra la facciano gli altri. Nessuno è immune dalla minaccia e sarebbe ora che non solo uno sparuto gruppo di politici e intellettuali, ma l'intera nazione discutesse seriamente di che cosa significano sicurezza e difesa nel ventunesimo secolo. L'Italia è la porta del Mediterraneo, ha un non poco importante passato coloniale, e la sua tradizione di relazioni con il Medio Oriente consolidata. Vorrei sommessamente ricordare alle anime belle, che mentre scriviamo, i nostri Tornado bombardano la Libia. Le dittature prima o poi cadono. Tutte. C'è chi sostiene che potevamo sottrarci alla campagna militare nel Nord Africa. Io credo di no. Come non possiamo sottrarre lo sguardo dalle immagini della tragedia di Oslo. Dai volti spauriti dei fratelli norvegesi. Bisogna saper guardare il sangue per non essere vinti.

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