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Voto frutto dell'ipocrisia È molto peggio del '92

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Cheerano state avanzate dalla magistratura di Bari per il senatore del Pd Alberto Tedesco e dalla magistratura di Napoli per il deputato del Pdl Alfonso Papa, peraltro già magistrato in quello stesso distretto giudiziario. Almeno una ventina d'anni fa si aveva il coraggio di esibire il cappio, senza infingimenti. Diciamoci la verità. Mai decisioni sono state così falsamente dolorose come quelle annunciate a carico di Tedesco, nella convinzione di salvarlo lo stesso, e di Papa nella speranza, realizzata, di vederlo veramente in manette. Nel caso di Tedesco, scampato all'arresto, per quanto solo domiciliare, la recita ha superato se stessa perché il senatore è stato tanto ligio alla posizione del suo partito da sposarne la richiesta di dire sì ai suoi accusatori. Che nello stesso procedimento avevano peraltro sostenuto l'archiviazione per fatti e imputati analoghi. Il Pd aveva bisogno del sacrificio gratuito e apparente di Tedesco, dopo averne lungamente e furbescamente congelato la pratica nel passaggio tra la competente commissione e l'aula di Palazzo Madama, per non contraddire la posizione alla Camera contro il deputato dello schieramento avversario. Ma soprattutto per non smentire l'eredità comunista del sostegno pregiudiziale alle iniziative della magistratura, anche a quelle più sospette o più sfacciatamente cervellotiche, vista l'utilità ricavatane tante volte per l'eliminazione o solo lo sputtanamento, e quindi l'indebolimento, d'ingombranti e temuti concorrenti politici. Il senatore Tedesco non solo ha invocato per sè un arresto che aveva buone ragioni di ritenere improbabile, visti i numeri politici della sua assemblea, ma si è anche dissociato dal ricorso al voto segreto, che pure è l'unico in grado di garantire ai parlamentari in queste occasioni l'esercizio di una effettiva, autentica libertà di coscienza. Una volta, del resto, nelle aule di Camera e Senato si votava solo e sempre a scrutinio segreto sulle persone, per liberare ragionevolmente tutti dalla paura di rifiutare per disciplina di partito e di gruppo cause non condivise. Del resto, l'articolo 67 della Costituzione, tante volte citato a sproposito, stabilisce che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato": di partito, di gruppo o di lista che sia, o che venga reclamato. La deriva giustizialista e forcaiola provocata nel biennio 1992-93 dalle indagini giudiziarie, e a senso prevalentemente unico, sul finanziamento illegale della politica determinò la sostanziale abolizione dell'obbligo direi igienico del voto segreto sulle persone. Emblematica fu quella mano alzata dal povero Giulio Andreotti nell'aula di Palazzo Madama a favore del suo procedimento giudiziario per mafia, e poi anche per omicidio: una mano levata sotto tutti i punti di vista, come voto palese e come resa ad un clima da giustizia sommaria, o quasi. Tale è anche quella che riconosce solo dopo tanti, lunghissimi anni l'innocenza dell'imputato, risparmiandogli la condanna definitiva ma non gli effetti devastanti dell'incriminazione. All'abolizione del voto segreto seguì a tamburo battente, con una urgenza poco onorevole per la storia della politica e della giustizia in Italia, l'abrogazione costituzionale di una parte consistente dell'immunità parlamentare, ridotta solo ai casi di arresto e di perquisizione personale o domiciliare. Quella deriva purtroppo non si è fermata, per quanti dubbi siano poi sorti fra gli stessi magistrati, almeno fra quelli più responsabili e meno politicizzati. Sta maturando adesso la tentazione di togliere anche ciò che è rimasto della vecchia immunità. O solo di mettere in cantiere, come si è chiesto ieri nell'aula di Montecitorio persino dall'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, che in passato avevo scambiato per un garantista, una riforma del regolamento per vietare ogni deroga al voto palese sulle richieste di arresto. Può darsi che, paradossalmente, finendo in carcere nonostante lo scrutinio segreto chiesto e ottenuto dai suoi sostenitori, Alfonso Papa ne abbia involontariamente salvaguardato la sopravvivenza. È in pericolo ora addirittura il diritto di voto del parlamentare sottoposto ad una richiesta di carcerazione. Antonio Di Pietro ieri nell'aula di Montecitorio ha contestato anche questo, proponendone l'abolizione per regolamento dopo avere sentito l'intervento a propria difesa fatto da Papa. Siamo evidentemente alle prese con un'auto, quella del giacobinismo, lanciata in discesa senza freni. E pensare che proprio Di Pietro appariva qualche giorno fa finalmente stufo del suo vecchio modello e improvvisamente attratto dalla moderazione. Sembrava pago dei successi referendari di giugno e della crisi galoppante nello schieramento di Silvio Berlusconi: l'indagato che egli voleva "sfasciare" da magistrato inquirente, alla fine del 1994, e che ha poi continuato a combattere ferocemente da politico, forse anche per guadagnarsi nel proprio schieramento i galloni di candidato elettorale alla guida del governo, in concorrenza con i Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola di turno. Più che alla Camera, dove Papa ha ricevuto il pollice verso, lo scrutinio segreto dovrebbe ora correre rischi al Senato, vista l'utilità ricavatane da Tedesco. Ma, per quanto reclamata formalmente dal suo partito, vedrete che la sua abolizione non farà molta strada. Il Pd e i suoi contorni lasceranno alla maggioranza di centrodestra, fingendosi di rammaricarsene, l'onere politico di continuare a garantirne il ricorso, in un gioco di ipocrisie e furbizie che farà rimpiangere persino le mattanze di Tangentopoli, tutto sommato più trasparenti nelle loro indecenze.

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