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Quella lezione da Londra

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«Humbled».Umiliato. Questa è la parola usata da Rupert Murdoch per definire il suo stato d'animo. E penso che fosse sincero quando la pronunciava di fronte ai politici che lo interrogavano. Umiliato perché il magnate australiano ha nel suo portafoglio gioielli del giornalismo mondiale. Suo il Wall Street Journal. Suo The Times. Suo The Sunday Times. Suo il delizioso Times Literary Supplement. Suo il Daily Telegraph. Suo il visionario mondo della tv planetaria. Sua la Fox che racconta gli Stati Uniti on air, in diretta, e porta anche da noi in Italia il mondo americano e il suo immaginario fatto di notizie, fiction, documentari. Sua la piattaforma globale del satellite e della pay tv che con Sky ha importato il modello delle notizie 24 ore su 24 e cambiato per sempre il business del calcio e del cinema. Sua la casa editrice Harper Collins, sinonimi di lingua inglese, letteratura, saggistica, avventura unica nel meraviglioso mondo della narrazione. Suo il gigante dell'informazione finanziaria globale, quel Dow Jones che è il nome dell'indice di Wall Street, il titano dei titani, il numero che ogni giorno, seduta dopo seduta, quotazione dopo quotazione, cambia la Borsa e la vita. Pagine e pagine di buon giornalismo strappate da un pasticciaccio brutto dove il cherchez la femme di tutti i gialli che contano è confermato: Rebekah, è lei, la rossa Brooks la maga che ha messo in piedi l'alchemico circo di notizie auscultate nel segreto, registrate, incolonnate e impaginate. Maneggiava la privacy come un esperto d'esplosivi, dava del tu alla nitroglicerina. Ma alla fine una bottiglietta è stata scossa e bum! l'impero di carta è saltato per aria. Dal motto «è la stampa bellezza» Murdoch si è ritrovato di fronte a un «è la democrazia, bellezza» che mai avrebbe immaginato nella sua vita di onnipotente, di costruttore dell'immaginario, padrone delle fortune e sfortune di celebrities, disegnatore delle parabole dei politici dall'Atlantico al Pacifico passando per il Mediterraneo e il Mar della Cina. Un gigante che ora mostra piedi d'argilla. È un vero peccato che questa storia finisca così, perché Murdoch è stato un geniale editore, un uomo che ha creduto nel giornalismo, nella carta stampata, nell'investimento in tecnologia, nella rete come presente e futuro dell'antico e meraviglioso mestiere di raccontare i fatti e commentarli. L'audizione ha rivelato una difesa affannosa, un turbine di non posso dire, un «riservato» stampato a lettere cubitali e una disperata volontà di rimediare all'Errore sapendo che non si tratta di una sbavatura ma di un buco nero capace di divorare tutto quel che Rupert ha costruito nella sua vita. Il suo scatto d'orgoglio quando ha precisato che lui, il tycoon, l'uomo più potente della terra, Citizen Murdoch, lavora dodici ore al giorno racconta tutta la sua storia. Nel «giorno più umiliante della mia vita». Decenni di duro lavoro buttati nella spazzatura di un giornalismo che aveva deragliato e accecato i suoi adepti e anche il suo pubblico. Hanno nutrito la bestia. E ora rischiano di esserne divorati a loro volta senza alcuna pietà. Perché è la pietas il grande assente di tutta questa storia. Quando si arriva a clonare illegalmente il cellulare di Milly Dowler, una bambina rapita e uccisa nel 2002, si bussa consapevolmente a una porta dove sono scolpite due parole «non ritorno». Dentro una sala buia, con un the end beffardo che ci riporta al bianco e nero, al cinema muto, alla celluloide, a Ridolini, al pubblico che ride... torta in faccia! Sì, Mr. Murdoch, tutto questo è umiliante.

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