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Liberalismo e socialismo non sono compatibili

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Caro direttore più leggevo ieri il nostro comune amico Antonio Martino su Il Tempo, in risposta alle critiche ricevute da Stefania Craxi e da me per avere scambiato con te e con Francesco Perfetti per socialista la manovra finanziaria, e più in generale la deriva dell'attuale governo, più mi chiedevo perché mai Silvio Berlusconi avesse fatto nel 1994 la fesseria di non affidargli il Ministero del Tesoro, preferendogli invece Lamberto Dini. Che, peraltro, si ritrovò poi non tanto a Palazzo Chigi, dove accettò lui stesso che arrivasse a chiusura della crisi di governo provocata da Umberto Bossi, quanto alla guida di un'operazione politica ribaltonistica, rapidamente maturata per ritardare di un anno le elezioni anticipate. E quell'anno servì a dovere perché la sinistra si organizzasse attorno a Romano Prodi sotto l'Ulivo e vincesse la partita elettorale del 1996. Ma neppure nel 2001, quando gli elettori lo rimandarono alla presidenza del Consiglio, quel benedett'uomo del Cavaliere, pur avendo promesso agli italiani la riduzione delle tasse, ebbe la felice idea di fare gestire l'economia all'uomo che più di tutti a quell'obiettivo credeva. E per il quale aveva, diciamo così, la cultura e la preparazione tecnica più adatte. Dopo averlo, sia pure onorevolmente, sacrificato al Ministero degli Esteri nel suo primo governo, Berlusconi tornò a sacrificare Martino alla guida del sia pure importantissimo Ministero della Difesa. Dove l'uomo diede grandissima prova di efficienza, per carità, ma era semplicemente sprecato. A Martino il Cavaliere, con gli effetti che purtroppo vediamo in questi giorni, preferì Giulio Tremonti. Il quale è riuscito ora a deludere sia la sua maggioranza, che mostra di subirne anche fisicamente il ruolo, sia l'opposizione. Dove chi lo ha corteggiato a lungo, pensando di potere spodestare grazie a lui l'odiato Cavaliere, lo ha scaricato di brutto contestandone quasi la capacità di fare di conto, come gli ha duramente rimproverato domenica scorsa su La Repubblica Eugenio Scalfari. Non so se gliene verrà mai la voglia e ne avrà il tempo, ma penso che sarebbe un bel rimpasto di governo quello che fornisse a Berlusconi l'occasione di mettere Martino al posto di un Tremonti spostato agli Esteri per sostituire un Franco Frattini spostato a sua volta alla Giustizia per succedere al quasi dimissionario Angelino Alfano, giustamente smanioso di fare a tempo pieno il segretario del Pdl. È un'idea, forse inutile come tante altre avanzate da o su questo giornale. Magari, vista l'eredità, Martino leggendomi starà facendo gli scongiuri. Ma, rinnovatagli la fiducia che merita e gli spetta, debbo ora esprimere con franchezza le critiche a quella specie di caricatura ch'egli continua a fare del socialismo quando lo considera irrimediabilmente incompatibile con i valori, la cultura e la pratica politica del liberalismo. Non basta citare e leggere Cavour, Hayek e Ludwig von Mises per scrivere che "si può costringere un socialista all'acqua, ma non a bere". Questa pessimistica valutazione, d'altronde, è da lui stesso smentita quando riconosce, come ha scritto ieri, che nell'Inghilterra di non molti anni fa, e a lungo, "Blair parlava socialista e governava liberale". Tony Blair ha avuto un predecessore italiano di nome Bettino e di cognome Craxi. Del quale Martino a torto riconosce positivamente solo un anticomunismo sotto certi aspetti anche superiore al suo, di vecchio e autentico liberale, insoddisfatto pure del vecchio Pli di Giovanni Malagodi, Valerio Zanone e Renato Altissimo. Gli è evidentemente sfuggita, nell'eremo della sua orgogliosa cultura e pratica di "minoranza", la portata dei quattro anni di guida craxiana del governo, dal 1983 al 1987: solo quattro dei tredici, dal 1980 al 1993, che egli butta un po' nel cestino per il rapporto del debito sul prodotto interno lordo, passato dal 54 al 123 per cento a causa di una politica economica sostanzialmente "consociativa", condizionata cioè dall'opposizione comunista. I quattro anni di Craxi a Palazzo Chigi furono così poco consociativi, e così tanto liberalsocialisti, da fare impazzire gli allora segretari della Dc Ciriaco De Mita e del Pci Enrico Berlinguer, che addirittura ne morì in un comizio, come ha riconosciuto in un libro l'ex segretario dei Ds e attuale sindaco di Torino Piero Fassino. Non si possono dimenticare, e tanto meno buttare nella spazzatura, i tagli antinflazionistici alla scala mobile apportati da Craxi, con la coda avvelenata del referendum voluto e perduto dal Pci. Né i suoi veti a certe privatizzazioni, come quella della Sme, gestite dall'allora presidente dell'Iri Romano Prodi per svendere agli amici della propria parte politica le aziende pubbliche. Fu di stampo liberale anche il no opposto da Craxi, tra gli insulti della sinistra democristiana e dei comunisti, alla difesa assoluta e arcaica del monopolio pubblico della televisione. Un'ultima cosa debbo ricordare a Martino, di natura solo apparentemente personale. Non fui "allontanato", secondo una versione arbitraria della vicenda data nei suoi libri anche da Marco Travaglio, ma volontariamente mi allontanai nel 1983 da Indro Montanelli, e dal suo Giornale, per simpatia politica verso Craxi. E con me, che preferii una chiara separazione ad un'ambigua convivenza professionale, se ne allontanò clamorosamente anche Enzo Bettiza. Il quale condivise le mie dimissioni di fronte alla scommessa liberale che Indro, diffidando di Craxi, aveva deciso di fare addirittura su De Mita, salvo dargli poi del camorrista e finirne querelato. Dopo soli undici anni al povero Montanelli capitò di scambiare per liberali, o quasi, persino i dirigenti e militanti comunisti che lo accoglievano alle feste dell'Unità apprezzando il suo divorzio editoriale e politico da Berlusconi. Il quale, dal canto suo, ha commesso molti e gravissimi errori, specie in questi ultimi tempi, ma ha dovuto anche fare i conti con un certo liberalismo disinvolto, e non solo con un trattamento giudiziario a dir poco sospetto, come converrà il sempre carissimo amico Martino.

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